La Croatina e il gioco dei quattro cantoni
/Broni, 29 marzo 2017. Dopo una serata trascorsa a bere Croatine provenienti da diverse costellazioni – dalle Colline Novaresi al Tortonese, passando per l’Oltrepò pavese fino ai Colli Piacentini – confesso che questo vitigno un po’ mi sfugge. Non è che non mi piaccia. Anzi. È solo che non sono sicura di averlo capito fino in fondo. Mentre la voce della Barbera mi risuona dentro, sempre chiara e comprensibile a chiunque appartenga la mano che la interpreta (tranne quando questa la snatura, rendendola irriconoscibile), quella della Croatina in qualche modo si nega. A confondermi sarà forse quella dolcezza di fondo, spesso scambiata per frivola futilità?
La locandina della serata organizzata dall'ONAV di Pavia e Piacenza (in collaborazione con Walter Massa) promette che questo sarà "il racconto di un grande vitigno capace di sfidare il tempo e i pregiudizi." A me, che conosco solo due Croatine (quella che, in blend con la Barbera, diventa Gutturnio e quella che, in sinergico uvaggio con Uva rara, Ughetta, diventa il mitico Barbacarlo) sembra già una cosa rassicurante.
Qual è la sua vera natura? Qual è la sua cifra? Forse il colore? Forse quella frutta matura? Forse quella struttura che sembra sorreggere la costruzione di una cattedrale eretta in nome della longevità? Ascolto i vari interventi e cerco di districarmi faticosamente all'interno di un labirinto spazio-temporale formato da un complesso arcipelago a forma di elle, e da annate (ben sette) molto diverse tra loro. Difficile trovare un comune denominatore. La Croatina sembra nascondere la propria identità già a partire dal nome: crea confusione tra vitigni quando viene chiamata impropriamente Bonarda (forse perché, come dice Lino Maga, "è un nome più simpatico") in Oltrepò pavese e sui Colli piacentini, e Nebiò laddove il Nebbiolo viene chiamato Spanna (Colline Novaresi).
A vegliare sulla serata c’è lui, il padrone di casa, il capostipite di tutti i figli della Croatina: Lino Maga con il suo Barbacarlo. Ma lungi dall'essere rassicurante, le sue parole spiazzano: una serata su un vino monovitigno, come può essere proprio a casa sua? come può essere il nume tutelare proprio lui, da sempre feroce assertore della irrinunciabile complessità del blend in vigna, e da sempre critico sull'uso perdente del nome del vitigno a scapito dei territori? Eppure Lino Maga non è un uomo come gli altri. Proprio lui, che ha sempre avuto il coraggio di essere se stesso, umile servitore di un territorio e disposto a morire pur di difenderlo, guarda ai produttori attorno a lui con una certa tenerezza e, in fondo, fa il tifo per loro. Perché anche loro non dovrebbero avere il diritto di avere una propria visione e di portarla avanti comunque? Lino Maga è anche questo: un uomo molto coerente.
Sotto l'egida del Barbacarlo, dunque, pura emanazione di ogni singola annata, frutto di un sapiente rispetto, inizia la degustazione, partendo dall’isola più settentrionale: le Colline Novaresi.
La Croatina di Davide Carlone, annata 2015, solo acciaio. Un concentrato di frutta matura e spezie, polvere e terra che da principio spiazza, si arruffa, e ti arruffa, ma poi ti rassicura perché alla fine dal bicchiere è il territorio che emerge con levità attraverso una nota agrumata di tamarindo e chinotto molto riconoscibile. È Boca. È il territorio che vince e riemerge sul vitigno – così come vince su Nebbiolo e Vespolina.
La Croatina di Christoph Künzli, Le Piane 2011, è un vino molto diverso, rigoroso, ambizioso, elegantissimo. Qui il legno c’è, con estrema discrezione, a ricercare una ricomposizione tra il ribes, il pepe e il tabacco da pipa. In bocca ha una sua dolcezza, gradevolmente bilanciata da un retrogusto di rabarbaro, e un tannino scalpitante che ha ancora molta strada davanti a sé – e ancora molto da dire.
Veleggiando verso sud-est, approdiamo alla seconda isola: i Colli Tortonesi, ovvero Berzano di Tortona e Monleale.
La Croatina di Stefano Daffonchio, in arte Terralba, Montegrande 2004, al naso è pura china, e rabarbaro, con una nota dolce piacevolissima che vira al cioccolato, tutte sensazioni che ritroviamo anche in bocca, soprattutto la china e la liquirizia, segnate da una tostatura dolce e persistente. Un vino di 13 anni (e di un’annata che amo molto) che trovo davvero interessante.
Anche nella Croatina di Walter Massa, Pertichetta 1999, c’è grande corrispondenza tra naso e bocca, segnati entrambi da una certa dolcezza e da una nota di crema pasticcera tipico delle sue Barbere invecchiate. La sua Croatina non ha la loro irruenza. È un vino di 18 anni, tenue, languido, mollemente adagiato nel bicchiere come su un divano. Un sublimato di Croatina, non la guerriera che io conosco, ma comunque un vino pieno di emozione.
Spostandoci verso nord-est, si cambia completamente territorio e orizzonte, approdando al terzo gruppo di isole: Oltrepò pavese, ovvero Canneto Pavese e Rovescala.
La Croatina di Andrea Picchioni, Rosso d’Asia (annata 2011, blend tra Croatina e Ughetta) al naso è un vino sconcertante, con un aroma di latte da caramella mou, dolce e in qualche modo infantile. Difficile sapere che cosa aspettarsi in bocca con un naso del genere, ma io mi aspetto un colpo di teatro. Osservo Andrea mentre siede al tavolo dei relatori: schivo, di poche parole, porta sempre la giacca e le scarpe di cuoio. Il ribelle dentro, mi dico, che ama visceralmente (e silenziosamente) questo vitigno. E infatti la sua Croatina tira calci e non si arrende così facilmente alla dolcezza di un abbraccio. È fresco, dolce e al tempo stesso scalciante, come un ragazzino che si sottrae alle carezze di una madre, coi tannini che scalpitano, deliziosamente persistente. Potrebbe ma non si abbandona, e ci sfida a fare fatica per bloccargli le braccia e catturare la sua essenza. Alla fine si lascia convincere, ma solo per un attimo prima di farsi rincorrere con un altro sorso. A mio avviso, il vino più interessante della serata.
La Croatina di Agnes, Bonarda OP Millennium, ci porta invece in un mondo molto diverso, più classico e rigoroso. Annata 2008 e botte grande. Al naso una marmellata di prugne mista a cuoio, in bocca tannini ancora ruggenti, un alcol prepotente che sovrasta su tutto e un finale amarognolo piuttosto gradevole. Forse manca un po’ di freschezza a controbilanciare i tannini e l’alcol, ma è comunque un vino di nove anni che sta iniziando a sfidare il tempo.
Spostandoci di poche miglia a est di Rovescala approdiamo nelle ultime isole dell’arcipelago: i Colli Piacentini, ovvero Ziano Piacentino (Val Tidone) e Momeliano (Val Luretta).
La Croatina di Luretta, Bonarda Manvatara 2007, al naso ha un’eleganza che travalica la pulizia, e una perfezione formale che lo rende il primo della classe, con una nota fresca di nocciolina tostata mista a fiore secco, mentre in bocca ha tannini ancora vibranti. Dieci anni e non sentirli. Ciò nonostante, è un vino che, a mio avviso, manca un po’ di emozione e di riconoscibilità.
La Croatina di Torre Fornello, Bonarda Latitudo 1999, gioca anch’essa sull’eleganza, ma ha una sua personalità molto precisa. Al naso lo trovo più riconoscibile, riannodando profumi già noti – frutta matura, polvere, spezie e fiore secco – e in bocca dà la sensazione di aver ancora molto da esprimere, nonostante i suoi 18 anni di invecchiamento.
Torno alla domanda iniziale. Qual è la vera natura della Croatina? Sono confusa. Parla lingue diverse, questo è evidente. Canta e risponde al territorio. Ha un colore intenso. Ha tannini decisi e acidità bassa. Ha una struttura capace di sfidare il tempo. E poi c'è quella dolcezza. D’accordo. Ma qual è la sua cifra? Qual è il comune denominatore che accomuna vini così diversi? E perché i vignaioli si appassionano tanto? Possiamo considerarla un grande vitigno senza temere di essere smentiti?
Per Christoph Künzli, con la mente sgombra dell'outsider, rivela che all'inizio per lui era solo un bel grappolo. E, secondo la sua personale filosofia estetica, da un bel grappolo non può che derivare un grande vino.
Per Andrea Picchioni, invece, è un illustre sconosciuto: un vino grande ed estremanente longevo, ma sfortunatamente ancora vittima di un pregiudizio e per questo motivo sconosciuto ai più.
Per Walter Massa, infine, l'unico diminutivo che le appartiene è il nome, per il resto è potenza, ovvero un concentrato di struttura, colore, alcol e tannini, sulla quale prevale sempre l'equilibrio.
Ma forse la definizione più toccante la dà Ernest Ifkovitz, un importatore americano presente in sala: un vino spesso scorbutico, ma con un cuore dolce.
Anche Lino Maga ha una sua idea sulla Croatina: è un'uva buona. Le grandi uve sono sempre buone da mangiare.
Forte come un toro, sfida il tempo nascondendo la sua grande struttura dietro quel velo di dolcezza. Senza la grande struttura a sostenerla, quella dolcezza risulterebbe insopportabilmente banale. Ma non lo è mai, se la si tratta con rispetto. A testimoniare al mondo che quest'uva è davvero in grado di sfidare il tempo (e i decenni) fortunatamente ci sono loro: le bottiglie di Barbacarlo. Sono loro a sostenere la passione un po' folle dei produttori coinvolti in questo pericoloso gioco dei quattro cantoni. Loro a indicare la via.