Carema e il Nebbiolo nei ricordi di Luigi Ferrando
/A undici anni di distanza da quella intervista, oggi ripenso ai primi passi che muovevo allora lungo i sentieri del Nebbiolo. Mi ero messa in mente di costruire un percorso sensoriale in due serate dalle Langhe alla Valtellina, presentando in degustazione nove vini da me selezionati che potessero raccontare nel bicchiere le varie anime di quel vitigno straordinario. Tra essi vi era il Carema Etichetta Nera 2004 di Ferrando, uno dei quattro vini rimasti anche nel mio libro, oltre che nel mio cuore.
Di Luigi Ferrando mi colpì subito la simpatia. Un uomo sorridente e ironico che amava raccontare e raccontarsi. Mi accompagnò per mano attraverso territori sconosciuti della memoria e del paesaggio con una leggerezza invidiabile, scacciando la melanconia sempre in agguato con il tono scanzonato di chi non si prende mai pienamente sul serio, e alla fine, dopo due ore di intervista, invitò me e mia sorella a pranzo, da un amico con un ristorante con vista sul lago Piverone. Lui non venne. Il suo stomaco gli consigliava di non pranzare.
Qui trovate l’intervista integrale su cui si basa la versione romanzata che troverete all’inizio del capitolo su Carema, a pagina 311. Era troppo bella per tenerla tutta per me…
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INTERVISTA A LUIGI FERRANDO (IVREA, 28.07.2010)
Da quando esiste questa azienda?
Dal 1890. Con Roberto, mio figlio, siamo ormai alla quinta generazione che si occupa di vino. A quei tempi i Ferrando erano commercianti di vino, originari di Acqui, che si erano trasferiti a Ivrea perché volevano commercializzare vini piemontesi in Val d’Aosta. Pensi che ancora oggi io qui sono il forestiero… Siamo rimasti commercianti fino agli anni ’50. E poi nel 1957 io e mio padre Giuseppe ci siamo innamorati del territorio e abbiamo iniziato a vinificare il Nebbiolo di Carema…
Le viti erano già lì o le avevate piantate voi?
No, le viti erano già lì. È già stata a Carema?
Non ancora.
Quando ci andrà, lo vedrà coi suoi occhi. Le viti non sono state piantate: stanno lì dai tempi dei Romani... Tradizionalmente, la pergola è una costruzione romana. Quando i soldati andavano in pensione, i Romani offrivano 30 ettari solo a quelli che si fermavano, e questo dava loro la possibilità di vivere in questo territorio. Per i Romani era importante, perché la cultura romana si insediava nei luoghi dove arrivava la viticoltura per contrastare i lupi... Eh eh... Anche qui sulla Serra l’Erbaluce è tutto a pergola, ma là a Carema ci sono le colonne doriche, ha presente, no? C’era... – io, coi nomi, sto diventando matto... – un messo papale che ha studiato tutta la storia della vigna e della vite nel nord Italia…
Sante Lancerio, immagino…
Sì, proprio lui!
Nel 1539 era cantiniere personale di papa Paolo III Farnese. È grazie a lui che sappiamo che i vini rossi del Canavese, sicuramente a base Nebbiolo, erano molto apprezzati dal Papa.
Lui parlava dei vini di Carema, e poi di due zone viticole del Canavese. Una era la zona di Caluso, l’altra era la cascina Cappellina, che doveva essere nei dintorni di Ivrea. Siam diventati matti per capire dove fosse, e poi l’abbiamo scoperto...
E dov’era?
A Bollengo! Ma non eravamo sicuri, e allora ci abbiamo piantato del Nebbiolo, per capire se era veramente lì la Cappellina, perché non c’è più niente… Era proprietà dei conti di Valperga, a dieci chilometri da Ivrea. È una storia antica, sa? C’è ancora la cappella, ma è andato tutto in malora. Loro si erano spostati in un altro castello, e facevano la bella vita... Questo mio amico si è comprato una casetta proprio lì, sopra Bollengo, e l’ho convinto a piantare un pezzo di vigna con il Nebbiolo di Carema. Adesso sono curioso di vedere i risultati, perché questo è il terzo anno di impianto e tecnicamente dovrebbe produr qualcosa. Ah, è uno spettacolo...
Quanti ettari avete a Carema?
Circa 2 ettari di Nebbiolo, con una resa di 40 quintali. Sono vigne vecchie, non esiste l’abitudine di estirpare e ripiantare: si sostituiscono le piante man mano che muoiono...
Quindi è difficile stabilire che età abbiano le viti...
Mah... L’età media va dai 25 ai 35 anni. Poi, in mezzo a un vigneto, che magari sono 150 metri quadri...
Come sarebbe a dire?
Sì, perché a Carema ci sono tante piccole terrazzine, suddivise in tanti piccoli proprietari, che vanno su per la montagna. Magari un proprietario ha mille metri di vigna suddivisi in dieci particelle differenti, per cui è più il tempo che ci mette a spostarsi da una parte all’altra per fare i lavori, che quello che produce. E questo è un grosso problema. È anche per questo che le rese sono basse: su dimensioni così non c’è possibilità di fare di più. Il terreno è quello che è, poi il terreno bloccato da muri non è terreno che viene ricambiato, e poi è poco, c’è tanta roccia sotto...
Ma il Nebbiolo corre?
Certo che corre! La pergola è nata per far correre la vigna! Sono almeno cinquecento anni che è così! Non è che puoi farlo tornare, come nelle Langhe, a 10.000 piante a ettaro... Il Nebbiolo è stato costruito per correre. Il terreno è poco, le viti hanno bisogno di spazio per muoversi e il produttore ha sempre cercato di farle andare dove poteva, perché, se le tiene basse, qui non c’è la possibilità di far maturare l’uva... Adesso qualcuno ha cominciato a tagliare più corto e non fa più correre il tralcio dieci metri. Io, però, non sono convinto che funzioni.
Ma, tanto per capirci, che distanze ci sono tra le viti?
Tre metri... Sì, ma tre metri qui, cara, non vogliono dire niente... Vai a far la retromarcia e ci sono tre metri... Le viti stanno a tre metri, ma il frutto magari sta a dieci, e la produzione va da un’altra parte. È proprio una diversa impostazione del territorio. Tutti i montanari hanno dovuto trovare una soluzione perché il vitigno si espandesse, prendesse aria e luce dappertutto. Produrre contro questi muretti, se le viti fossero tenute basse, sarebbe impossibile: non ci sarebbe spazio.
Come sono orientate le viti?
Dipende. Sud. Sudovest. Carema è una conca all’imbocco della Val d’Aosta, una specie di imbuto scavato tra le montagne. C’è un microclima particolarissimo. Poi, Carema è piccolissima. Nel 1967, quando hanno fatto la DOC Carema assieme a tutti i grandi Nebbioli piemontesi, erano 33 ettari; oggi la superficie vitata sarà sui 16 ettari, e vanno via via riducendosi. Si vede proprio che il bosco si sta abbassando piano piano… È una viticoltura che devi fare a mano, e che richiede molta manodopera.
C’è un grande frazionamento dei terreni…
Sì, e infatti la situazione è ingestibile. Tutte le famiglie di Carema sono proprietarie di vari appezzamenti di vigna, e sono gelosissime dei loro terreni. Tante volte non ce la fanno più a guardarli ma, piuttosto che cederli ad altri, li abbandonano e questo è un altro grosso problema... Essendoci molti terreni abbandonati in mezzo ad altri ancora coltivati, intorno a questi vengono i rovi. È un pasticcio enorme, però si tiene duro, si va avanti così. Noi da sempre ci appoggiamo ad alcune famiglie di Carema, con un sistema che ci garantisce una produzione di qualità in loco, che altrimenti sarebbe impossibile.
Avete un contratto con queste famiglie?
Sì. Ormai da decenni, e questo ci dà la garanzia di quegli ettari... Capita che qualcuno venga a mancare, e che i vigneti vadano in successione, magari son tre fratelli, a due va bene tenerli e all’altro no... La montagna è un disastro. A volte parli per ore, ma non ti capiscono... A noi, però, piace lavorare, muoverci, avere delle idee, cercare di spostare l’orizzonte, ma ti accorgi che hanno proprio paura…
Per lei che cosa significa produrre Carema?
Un grande sacrificio, ma anche una grande soddisfazione quando poi vedo i risultati finali: a volte mi sembra impossibile che da 30 centimetri di terra sopra la roccia possa venir fuori un vino di grande qualità, ma poi mi rendo conto che è proprio quel suolo a portare nella bottiglia qualcosa di unico, qualcosa che abbiamo solo noi… Perché Carema è un gioiellino dell’enologia. È bello arrivare ai vertici dell’enologia nazionale con la Doc più piccola d’Italia... Ma la domanda è: perché nessuno, a parte noi, sostiene il territorio? Lì a Carema il Nebbiolo ha trovato la sua patria, però è dura perché, se nelle Langhe ci vogliono 500 ore di lavoro per coltivare un ettaro di vigna, a Carema ce ne vogliono almeno 2000...
Duemila??? Bisogna crederci molto!
Eh sì... Certo che, se non continuava Roberto, io avrei già smesso da dieci anni, perché non è possibile lavorare in queste condizioni. Io ho settant’anni. Fino a sessantacinque ho tirato la carretta anch’io, ma adesso è tutto sulle sue spalle… Ma lui, per fortuna, Roberto ha la testa dura... E per fortuna, a sostenerlo economicamente, c’è l’Erbaluce. Vuoi mettere, però, la soddisfazione di vedere il vino Ferrando qualificato ad altissimo livello? È il piacere di fare qualcosa che rimane, e di vedere che la gente ne parla. Tra l’altro, abbiamo saputo da poco che Robert Parker ha dato 93/100 all’Etichetta Nera e 90/100 all’Etichetta Bianca… Lui, il Parker, è uno di quelli che io ho sempre un po’... Dai, i suoi gusti sono sempre stati quelli della Toscana, del Cabernet, quelle cose lì. Noi siamo fuori dai gusti internazionali, abbiamo continuato a produrre vini che la gente non sapeva neanche cosa fossero... Noi abbiamo tribolato molto, sa? Pensi che nel 1964 noi comperavamo ancora il vino dai produttori, perché abbiamo cominciato a pigiare l’uva in cantina solo nel 1967...
Come mai?
Eh, non c’erano le strade. S’andava su col furgone fino a metà paese, finché ho comperato 200 metri di gomma per portare giù il vino fino alla cantina di questo mio carissimo amico, perché altrimenti si doveva portare giù tutto con le brente. Sa cos’è una brenta, vero?
Sì. Sono circa 50 litri…
Per caricare 500 litri impiegavamo mezza giornata. Era un altro mondo…
Che mondo era?
Era un mondo ancora legato alle tradizioni, che talvolta erano proprio assurde. A Carema la civiltà non era ancora arrivata. Non c’erano strade, c’erano solo mulattiere. Andavano su coi muli, e con la roba sulle spalle. Per loro il problema della vinificazione era anche quello... Loro, per riempire una vasca per la fermentazione da 15 ettolitri, impiegavano tre, quattro, anche cinque giorni, e poi, alla fine, il vino sapeva di aceto... Per anni i locali hanno continuato a pensare che quel ‘tac’ che aveva il loro vino fosse una caratteristica del Carema, e questo ha creato grossi problemi, perché la gente andava su a comprarsi una damigiana e, quando poi lo portava a casa, toh! Il vino era diventato aceto... Io gliel’ho anche detto, ma loro, niente, continuavano a buttar dentro uva per quattro o cinque giorni nello stesso contenitore... In più, la vendemmia a Carema è dal 15 ottobre in avanti, e qui faceva un freddo cane. La pigiatura lì avveniva con uomini nudi dentro il fusto, e mi creda, uomini nudi a zero gradi, nel fusto, non ce li mandi. Allora si doveva aspettare che la temperatura andasse a 16-17 gradi…
Che è una temperatura perfetta perché si formi la volatile.
Proprio così! Fin quando non c’è stata un po’ di tecnologia e un po’ di strade per poter accelerare i tempi. A quel punto, sono sparite tutte le vigne strane, come quella del mio amico, che impiegava 35 minuti per salire a prendere 50 chili di uva e portarli giù. Capisce? Carema sta a 300 metri, ma lui, la vigna, ce l’aveva quasi a 700. Quelle vigne lì sono sparite tutte, e sono rimaste quelle dove si arrivava con il motocarro...
A che altitudine stanno i vigneti?
Non so se i più alti arrivano a 500 metri... Le più alte adesso sono quelle dietro la casa di Pin... I nostri saranno a 380, massimo 400 metri.
Voi a Carema producete due vini, l’Etichetta Bianca e l’Etichetta Nera. Dove raccogliete l’uva per l’Etichetta Nera?
Non c’è un posto preciso. Esce solo nelle annate importanti…
È una Riserva, insomma…
No, no. Attenzione. Quando sono nati questi due vini, nel 1962, non c’era la possibilità di scrivere Riserva in etichetta. Per questo, noi ci siamo inventati questa roba qui dell’etichetta nera... Allora la Cantina Sociale, che produce il 90% di Carema contro il nostro 10%, ha fatto in modo che, per poter scrivere Riserva, devi imbottigliare il vino a Carema e tenerlo lì un anno in bottiglia. Noi con l’Etichetta Nera abbiamo risolto il problema, anzi, cerchiamo di spostare comunque di un anno la sua uscita rispetto all’Etichetta Bianca. Per tanti anni, il problema è stato riuscire a produrle entrambe. Negli ultimi anni è stato facile, ma in quegli anni là, tra il ’60 e il ’70, era dura: abbiamo fatto l’Etichetta Nera quattro anni su dieci...
Esistono dei cru a Carema?
Ma no, signora, a Carema non si possono fare dei cru, perché quando hai una vigna di dieci metri quadri, eh eh... Questo mio carissimo amico, purtroppo è già morto da anni, un giorno mi dice: “Ho venduto la vigna!” e io, “Potevi dirmelo che la compravo, no?” “Ah,” dice lui, “erano 20 metri quadri: ci han fatto dentro un bel garage...”. Capisce? Il montanaro ha un piacere mostruoso ad avere il terreno. I più furbi di tutti son stati i tedeschi che hanno detto: Maso chiuso! Tu sei il primo genito e ti porti a casa tutto. Gli altri fanno quello che possono, però il terreno rimane tutto insieme. Qui le vigne di un ettaro, nel giro di quattro o cinque generazioni sono diventate di 250 metri quadri… Ah, i montani sono terribili... Io, per tanti anni, ho preso in giro i tedeschi, mi pareva ingiusto, però poi, quando ci vai di mezzo tu, ti rendi conto che è una scelta assolutamente oculata...
In che anni si è venuta a creare questa situazione?
Molto tempo fa. La vigna del Cavalier Domatti, che è quello che ha fatto questa bella bottiglia – questo è un Carema del 1906 e ha preso anche dei premi... – era una vigna di due ettari, costruita dai muratori canavesani, che d’estate lavoravano in Svizzera, e d’inverno tornavano qui e, con vitto e alloggio, rimettevano a posto i vigneti. Sono delle opere ciclopiche… Quella è l’ultima vigna che ho visto intonsa, fino a venti anni fa. Poi, ho cominciato a vedere lo zio, il cugino, il nipote... Eh, anche quella adesso è abbandonata... Sì, perché poi bisticciano tra fratelli... Il problema è che poi tutti hanno un altro lavoro, anche a 40 chilometri di distanza. Poi, quando torna a casa, non ne ha più voglia. C’è ancora qualcuno che lo fa...
Fino a un certo punto, però, è stato possibile…
Sì. Una volta a Pont-Saint-Martin, a due chilometri da Carema, c’era l’Enel e tutta questa gente, che faceva i turni, una volta uscita dal lavoro, tornava subito a casa a lavorare la vigna. Poi, con l’arrivo della Olivetti, la gente ha cominciato a venir giù a Ivrea. Poi l’Olivetti si è spostata a Sant’Armando, poi a Scarmagno, e piano piano si sono spostati i tempi di rientro. Poi, le aziende hanno cominciato a tirare i remi in barca, gli orari sono cambiati, e questo ha influito sulla costruzione dei vigneti, non solo a Carema, ma anche nel Canavese, perché in certe zone hanno preferito scambiare i vigneti in collina con quelli in pianura, hanno comperato un trattore da 100 cavalli e, tornati dal lavoro, lavorano un’ora in vigna con quel bestione, nel terreno piantano granoturco o altro, che poi rende sicuramente di più. Se devi vivere di vigna, allora ti comporti in una certa maniera, ma qui l’85-90% non vive di vigna e quindi lo fa quando può, e come può. La vigna, se non sei appassionato...
Qual è il problema principale di questa zona?
Il territorio è troppo piccolo e non c’è visibilità. Oggi, per avere visibilità, ci vogliono circa cinque milioni di bottiglie, ma qui, quando tutti ne fanno delle patére, arriviamo al massimo a 1.200.000 bottiglie. Noi non abbiamo la possibilità né di far pubblicità né di andar tanto in giro, ma vedo che la gente viene a cercarci comunque. Bisogna pensare che una volta Ivrea aveva 23.000 abitanti e la Olivetti aveva 15.000 dipendenti. Con le possibilità del dipendente Olivetti rispetto al contadino... La Cantina Sociale di Carema e la Cantina Sociale di Piverone sono state create da Adriano Olivetti. Di tutte le cose che lui ha creato, le uniche che gli sono sopravvissute sono le due cantine, il resto è andato tutto a rotoli. Qualcuno ci ha guadagnato di sicuro, ma l’idea di un’agricoltura legata al territorio, legata all’operaio part time, è morta con lui... Qui sono spariti i muratori, i coltivatori diretti, gli artigiani, perché tutti andavano a lavorare alla Olivetti. Quando vendevamo vino, avevamo quattro dipendenti, ma per anni li abbiamo cambiati ogni sei mesi. E questo ha impoverito il territorio. È un intero territorio in crisi. Oggi la cantina di Piverone pigia 20.000 ettolitri di vino, ma trenta, quarant’anni fa ne pigiava 100.000. Non è che Carema è sparita, mentre le altre zone si sono evolute. Metà collina, se va a vedere, è tutta terrazzata, ma le viti sono sparite. La Cantina di Piverone è fallita. Nell’arco di dieci, quindici anni è crollato il mercato, perché non c’è stata evoluzione del prodotto. Perché poi, se fai dei vini buoni, in qualche maniera riesci a venderli. Se, invece, fai dei vini così così, ci sono altre zone dove il così così costa la metà.
È cambiato il Carema da quando lo faceva con suo padre?
Beh, una volta si faceva sicuramente più uva, e le temperature erano inferiori rispetto a oggi, quindi erano uve che non riuscivano ad arrivare a maturazione completa ogni anno. Oggi fa più caldo, abbiamo sempre delle splendide maturazioni, e quindi arriviamo in cantina con un prodotto sicuramente diverso da quello che avevano negli anni Sessanta. Una volta si facevano macerazioni molto più lunghe. Oggi la macerazione si fa il giusto, proprio perché non vogliamo tirar fuori troppi tannini, e, quando vediamo che è ora, andiamo a svinare, separando le bucce dal liquido. Sicuramente una volta i vini erano molto più acidi. Adesso vanno a fare lo champagne in Inghilterra. Il cambiamento climatico...
E l’uso del legno?
Il legno è diventato sempre più piccolo. Una volta avevamo delle botti da 55 ettolitri. Oggi la più grossa è da 21 ettolitri e poi abbiamo vari formati, dai 15 ettolitri ai 500 litri, alle barrique. Il disciplinare prevede minimo tre anni di invecchiamento: i nostri vini fanno 24 mesi nel legno.
Com’è il Carema invecchiato?
Un miracolo! Ci sono annate stupende come il 2001, o il ‘97… Indietro, sa, è sempre un po’ relativo, perché erano buoni, ma adesso ti rendi conto che non sono più la stessa cosa. Poi, magari, ti capita la bottiglia del ’64. Una roba fantastica. Non so neanch’io come ha fatto a resistere, però ha resistito... Annate così ti ripagano delle annate storte, come il ’77... Non abbiamo fatto vino a Carema. Tutto vino sfuso... È stata un’annata così, un po’ dappertutto, in Piemonte. Quella è stata forse la peggiore di tutte... Qui siamo molto legati alla personalità del vino. Ogni annata i nostri vini sono diversi. Dipende dal clima.
C’è un’annata a cui si sente particolarmente legato?
No, perché ogni vendemmia ha qualcosa di particolare... Io non posso parlare del vino, ma mi vengono in mente le cose che succedevano a Carema. Il mondo del vino è stato bello, è stato bello per anni. Adesso è un po’ cambiato perché ormai è entrato il marketing, ma forse è cambiato il mondo del piccolo, questo è il problema. Il mondo del vino è stato bello perché tutti facevano festa in qualunque momento legato al vino, al territorio, all’amicizia. Adesso si è un po’ perso, perché i grandi sono diventati grandi. Alcuni, prima, erano amici. Adesso, per parlargli insieme, devi chiamare la segretaria... Altri, come Giacomo Bologna, li ho persi tanti anni fa, e tutte queste cose hanno lasciato il segno. Mi ricordo che Giacomo ha comprato due fusti di whisky quando sono nati i due figli e noi andavamo giù con Maurizio Zanella, l’altro disgraziato, di quelli giusti, però, a mangiare tartufi. Una notte è arrivato da Giacomo un tizio con le ostriche dalla Normandia, e finché non sono finite le ostriche, non siamo andati a casa... E poi Giorgio Grai! Un altro pazzo scatenato... Con lui andavo a fare le corse in macchina, e la notte correvamo giù per i tornanti... Oggi le racconto, queste storie, ma non ci posso neanche più pensare, perché allora passava una macchina ogni mezz’ora... Comunque, questi sono gli uomini che mi hanno influenzato, quelli che mi hanno detto cosa dovevo fare. Io, la prima volta che ho visto una cantina scaldata d’inverno, l’ho vista con Giorgio Grai a Santa Maddalena. Ma com’è che è fatta così?, gli chiedevo. E lui rispondeva: “Siete voi scemi, piemontesi, che avete le cantine fredde! È così che si fa il vino rosso buono!” E poi, pian pianino certe cose le ho imparate... Però, quando ci dicono che noi siamo in po’ “tardi”, han ragione, perché io ho impiegato dieci anni prima di attaccare una stufa in cantina dopo che Giorgio me lo aveva detto... Dieci anni! E però, la tradizione era quella, non c’era niente da fare, non si poteva. Non c’era neanche nessuno che ti dava retta. Il piccolo mondo del vino era bello per quello, ma aveva anche dei limiti, perché la tecnologia si è evoluta molto, ma prima devono evolvere le persone…