Dickens, il pop e la Barbera
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Qualche giorno fa un’amica mi ha lanciato una sfida: pubblicare 7 libri in 7 giorni per promuovere la lettura. Normalmente non partecipo alle sfide lanciate sui social, ma questa mi è parsa diversa – niente catini ghiacciati da rovesciarsi in testa, niente foto di dieci anni fa, niente richieste strane. Qui si trattava di pubblicare in assoluta libertà libri che ci sono piaciuti. Così, semplicemente. E di questi tempi in cui l’arte e la lettura potrebbero aver salvato il mondo (e la sua salute mentale) mi è parso bello dare il mio contributo.
Primo problema. Quali libri scegliere? Quelli di formazione o quelli letti di recente? Classici, libri rari o libri ancora sul mercato ed eventualmente rintracciabili da chi volesse procurarsene una copia? Secondo problema, più grave. Quali libri scegliere, tenendo conto del fatto che i miei libri stanno altrove? Eh sì, perché oltre alla cantina con tutti i miei vini, al di là del Po ho lasciato pure la mia libreria. I libri dovevano essere i miei. Come fare con le foto? Così, tra una casualmente conservata nella memoria nel telefono e un’altra inviatami da mia sorella, la scelta è ricaduta su un paio di saggi recenti (Anime baltiche e Gli imperi dell’Indo), un travellog (Sentieri neri), la riscrittura vittoriana della favola di Amore e Psiche (Il cuore vero), l’opera di Shakespeare che più amo (La Tempesta), il romanzo fondamentale dei miei vent’anni (Moby Dick) e un romanzo tra i miei preferiti letto a quaranta: Our Mutual Friend o “Il nostro comune amico” di Charles Dickens. Fiera di questa mia ultima scelta, pubblico la foto e nomino un amico. Dal mio punto di vista è un bellissimo pensiero…
Il suo commento, però, mi coglie decisamente di sorpresa.
“Certo che, di tutta la letteratura che avresti potuto scegliere, proprio uno come Dickens che non ho mai sopportato!”
Urca! Rileggo la frase, incredula. Eppure è un romanzo appassionante e complesso, tecnicamente geniale, ricco di personaggi indimenticabili e una trama che tiene incollato il lettore dalla prima all’ultima pagina e che gioca con tutti i generi letterari e tutte le classi sociali… Com’è possibile in un tempo in cui la gente impazzisce per le serie su netflix? E mentre fisso lo schermo ancora incredula, di colpo, ecco un’epifania! Inatteso, un ricordo riaffiora alla mente dopo quasi trent’anni…
Anni Novanta, Università di Pavia. Come disse un giorno a lezione Tomaso Kemeny, professore di Letteratura Inglese nonché poeta, soltanto parlare di Ezra Pound (di cui non si poteva nemmeno pronunciare il nome, viste le sue simpatie politiche) poteva esser considerato peggio di parlare di Dickens. Perché? Perché Dickens aveva un terribile difetto ai nostri occhi di lettori del Novecento. Che non era, come noi studenti avremmo potuto pensare, il numero di pagine – mai meno di ottocento – e neppure la tremenda noia vittoriana suscitata dalle sue storie strappalacrime… Niente di tutto questo. Il successo, semmai. La popolarità. Perché, ebbene sì, Charles Dickens era una vera rockstar mondiale osannata dal popolo...
Noi lo avevamo fissato come se stesse straparlando – perché per noi Dickens era l’infame che aveva rovinato le nostre infanzie con storie terribili su minori maltrattati, o al massimo con racconti edificanti su vecchi bastardi che si ravvedevano giusto il giorno di Natale… Ma di che diavolo stava parlando? Sì, continuò, ciò che non gli si perdona è di essere stato un bambino povero e straordinariamente talentuoso, e di avercela fatta comunque, grazie al successo decretato non dall’accademia, ma dal popolo, the people, i suoi lettori che restavano catturati all’amo delle pagine dei suoi romanzi pubblicati a puntate sui giornali dell’epoca. Per questo, concluse, leggere Dickens non è serio quanto leggere Joyce. Perché lui era incredibilmente pop. E certe cose non si perdonano facilmente…
Forse sarete stupiti, ma tutto quel discorso non mi convinse affatto, e mi ci sono voluti vent’anni prima di superare il pregiudizio (lo stesso che anima ancora oggi il mio amico, ne sono certa…) e altri dieci per cogliere il nesso tra Dickens e la Barbera. Perché Dickens non è Joyce, ma nemmeno un Harmony, capite? Così come la Barbera non è il Nebbiolo, ma nemmeno un Prosecco industriale. E, credetemi, sono quelle mezze misure che non vengono facilmente perdonate. Accoglienti e complesse, nello stesso istante. Sofisticate e leggibilissime. Seduttive e divertenti. Mandano in confusione. Sfidano i pregiudizi. Ti fanno faticare per niente, insomma.
Ripenso alla Barbera, Our Mutual Friend, la nostra comune amica quando è veramente grande, e provo a riscrivere quanto detto del libro: eppure è un vino appassionante e complesso, tecnicamente geniale, ricco di sfumature indimenticabili e una trama che tiene incollato il bevitore dal primo all’ultimo sorso, così versatile da giocare con tutti gli stili e le interpretazioni, con ogni tipo di palato, e con ogni portafoglio…
Sì, direi che funziona anche così.