Gravner, le anfore e altri potenti incantesimi – Un’intervista inedita
/Josko Gravner è un personaggio unico nel panorama enoico italiano e mondiale, tanto affascinante quanto controverso, caratterizzato da quella “austerità apollinea, tipicamente mitteleuropea” (“La Barbera è femmina!”, 2015) e da una “poetica”, il cui tema dominante è il “desiderio di annullare gli effetti del Tempo – l’ossidazione, la morte, l’oblio” (“Lungo i sentieri del Nebbiolo”, 2021). Se Gravner è il mago che riesce a fermare il Tempo nei suoi vini, l’anfora è senza dubbio la sua pietra filosofale. Il più potente dei suoi numerosi incantesimi.
Dall’intervista che state per leggere (rilasciata a Lodi il 31 maggio 2012 durante una degustazione AIS e ripescata dal mio archivio di recente) emergono tutti i punti fondamentali del Gravner-pensiero – che tre anni più tardi, nel 2015, sarebbe stato messo nero su bianco in una bellissima pubblicazione ad opera di Stefano Caffarri.
Forse vi starete chiedendo: che senso ha pubblicare un’intervista inedita a più di dieci anni di distanza? Che cosa ci racconta che già non sappiamo? La risposta è che, rileggendola oggi, mi è sembrato interessante lo scarto esistente tra la fotografia scattata nel 2012 e l’immagine restituita dal dibattito odierno sul vino naturale. Molte cose sono cambiate in questo decennio, eppure a tratti si ha come l’impressione che da allora - un po’ come dopo l’avvento del grunge in campo musicale - ben poco sia accaduto. Forse l’aspetto per me più sorprendente è stato prendere atto di quanto il lessico gravneriano sia diventato patrimonio comune non solo per chi, come me, scrive di vino naturale, ma anche e soprattutto per chi, il vino, lo produce.
Gravner non è un semplice produttore di vino, e sicuramente non è un “contadino ignorante”, come lui amava scherzosamente definirsi. È soprattutto un visionario creatore di un lessico e di una sintassi capaci di descrivere un mondo nuovo che di lì a poco avrebbe preso vita prepotentemente. E in questo gli siamo tutti debitori.
Una doverosa precisazione. Come ogni altra intervista, anche questa è stata editata per renderne più scorrevole la lettura e comprensibile il senso. Ma Gravner, oltre a parlare a braccio, pensa in sloveno e traduce i suoi pensieri in italiano, scegliendo le parole con cura, ma spesso conservando la struttura della lingua originaria. Per non correre il rischio di alterarne la voce sostituendola con la mia, ho deciso di rispettarne il ritmo e di intervenire il meno possibile. Vogliate dunque perdonarmi se la lettura a tratti può risultare po’ faticosa. Buona lettura.
Buonasera a tutti. Sono molto emozionato per questa serata. In realtà non avrebbe dovuto esserci una serata. Quando Marzia mi ha scritto per la prima volta lo scorso luglio, avevo deciso di non accettare il suo invito, ma poi le sue parole mi hanno fatto cambiare idea e mi hanno spinto a venire qui da voi e a partecipare a questa degustazione. Quindi grazie, Marzia.
Grazie a te, Josko. E grazie a tutti voi di essere qui. Questa sera, diversamente dal solito, ho deciso di non iniziare dai vini più giovani, cioè quelli in anfora, ma di servire i vini in degustazione in ordine cronologico perché mi sembrava che avesse più senso seguire la tua evoluzione anziché quella del vino. Per volere di Josko, questa non sarà una degustazione classica come siamo abituati a fare qui all’Associazione Italiana Sommelier, con l’analisi di ciascun vino, ma piuttosto una chiacchierata. Vorrei iniziare questa serata con una domanda biografica. Come faceva vino tuo padre?
Sono molto fiero di aver avuto un padre che era molto molto onesto. Lui mi diceva sempre che fare il vino è una cosa molto seria perché il vino è il frutto di chi lo fa, è frutto di un pensiero, quindi lo dobbiamo fare con grande onestà. Da giovane ho fatto un po’ di scuola, ho frequentato tre anni di scuola dove c’era anche l’enologia. Una volta finita la scuola, ho iniziato a mettere in pratica a casa quello che avevo imparato. Ho fatto dei grandi disastri, veramente, perché ho fatto delle cose che erano proprio il contrario di quelle che mio papà mi insegnava. A quattordici anni ho iniziato a vinificare con mio papà e facevo quello che lui mi diceva di fare. Qualche anno dopo, avrò avuto diciassette, diciotto anni, eravamo lì che ridevamo assieme e a un tratto ho detto: papà, sei vecchio, adesso farò io il vino. Il papà mi ha lasciato fare. Ha detto, sei giovane, è giusto che provi, però vedrai, dopo un po’ di tempo tornerai indietro e farai il vino come lo faccio io, almeno lo spero. E così è stato. Per un po’ ho provato con quello che mi hanno insegnato a scuola, convinto di fare bene. In quegli anni mio papà diceva sempre che “buono” è sinonimo di qualità. Invece io dicevo, no, papà, dobbiamo fare tanto vino e buono. È chiaro, ero solo un ragazzo. Quantità e qualità sono cose che non vanno insieme. Non a caso adesso sono sempre più concentrato nel fare poco e buono. Perché altrimenti, se non c’è la bontà nell’uva, poi non c’è nemmeno nel vino. È chiaro che mio papà aveva tutte le botti in legno, le vinificazioni erano molto semplici, ma l’uva era buona, e da quell’uva buona si otteneva un vino buono.
Com’erano le rese?
In quegli anni le rese, anche quelle di mio papà, erano abbastanza alte perché purtroppo il lavoro doveva far sopravvivere economicamente le famiglie. Neanche il consumatore era pronto a recepire la qualità, quindi il vino veniva prodotto e poi venduto in gran parte sfuso. Quando sono arrivato io, ho iniziato a eliminare le botti di legno per passare all’acciaio inossidabile. Un grosso sbaglio. In quegli anni fare vino nel legno era un po’ come andare contro corrente perché era difficile vendere il vino che non veniva fatto in acciaio. Non è che per forza si doveva cambiare. Il fatto di voler cambiare era un mio problema. Pian piano, col passare degli anni ho capito che avevo commesso un errore abbastanza grave e che dovevo ritornare al legno. Tornando al legno, ho commesso un altro errore: sono passato alle barrique.
Perché, anziché tornare alla botte grande, sei passato alle barrique?
In quegli anni ho fatto qualche viaggio in Francia, dove cercavo sempre di visitare le migliori cantine della zona. Tutti avevano la barrique in quel momento. Il vino fatto in barrique mi piaceva più del mio, per cui anch’io volevo fare il vino in barrique. Credetemi, dove c’è un grande territorio, non c’è bisogno della barrique. Dove si usa la barrique, non c’è il terroir per fare il vino. Col passare degli anni, poi ho capito che anche quello era uno sbaglio. Ma ammettere uno sbaglio è molto difficile, soprattutto con il consumatore perché, quando dici che hai sbagliato, non ti perdona. Il consumatore non capisce che, se mi accorgo che si può fare il vino in un altro modo e ammetto di aver sbagliato, il vino può migliorare. Il cambiamento non ti è permesso. Purtroppo io conosco molti produttori che si accorgono di aver sbagliato, ma non cambiano solo per questo motivo, e continuano a sbagliare. Io invece, quando mi accorgevo di aver sbagliato, ripartivo da capo. Quindi ho eliminato le barrique per passare poi alla botte grande e, di conseguenza, alla macerazione delle uve bianche.
Sull’acciaio tu poni due importanti questioni. La prima è l’isolamento del vino dall’ambiente esterno, perché il vino è un essere vivente e isolarlo dall’ambiente è – cito le tue parole – come “chiuderlo vivo in un sarcofago”. La seconda riguarda la cessione dei metalli. Puoi spiegarcelo meglio?
È chiaro che, quando da giovane ho acquistato i contenitori di acciaio inossidabile, è perché ero convinto che fossero meglio del legno, altrimenti non lo avrei fatto. Gli sbagli che ho fatto li ho fatti tutti in buona fede. E invece poi, col passare del tempo, ho capito che l’acciaio, purtroppo per il vino, è un metallo che non lo lascia respirare. Il problema fondamentale sono le cariche elettriche che irritano continuamente il prodotto vino, che non cresce bene, cresce sempre agitato e poi, se lo devi accompagnare con i travasi (perché quando una cosa non respira può dare dei problemi) può sviluppare dei sentori sgradevoli. Con il legno difficilmente si arriva a questo. Inoltre, l’acciaio cede anche un po’ di metallo. È risaputo, però è normale. È un po’ come l’acqua del rubinetto. Si aumentano un po’ i valori minimi e ridiventa buona. Diciamo che per me l’acciaio nelle cantine è un grossissimo problema. Verrà il giorno – io prevedo questo, ma non è detto che succederà – verrà il giorno in cui, se mai l’industria metallurgica sarà in grado di fare il bagno dell’acciaio nel titanio, che è un metallo più puro, il vino non sarà più a contatto con l’acciaio. È chiaro che nella mia cantina non avrà mai più spazio né il titanio né nessun altro metallo perché, anche se il titanio non cede nulla e non lascia residui, nel metallo il vino non respira e il vino deve vivere, deve respirare. È come una persona. Altrimenti non si ottiene mai un grande prodotto.
Nel Breg e nella Ribolla pre-Anfora era già stata eliminata la filtrazione?
Sì, già a partire dall’annata 1994. Poi nel 1996 abbiamo avuto la grandine e questa ci ha portato via circa il 95% dell’uva. Per me quella è stata un’annata molto favorevole, perché una grandinata, sì, ti porta via un anno di lavoro, però ti fa talmente ricco dentro che capisci certe cose che, senza quella grandinata, non riusciresti a capire. Quindi nell’annata ’96 ho fatto delle prove di fermentazione, con aggiunta di lieviti e senza aggiunta di lieviti, con macerazione e senza macerazione, e devo dire che il vino peggiore è uscito quello con aggiunta di lieviti selezionati. I lieviti selezionati sono tutti di origine sintetica. Far partire una vita con un lievito di origine sintetica è una cosa veramente disastrosa. In questo momento sono permessi 300 additivi da aggiungere al vino. Io, nella mia cantina, ho solo una cosa in aggiunta al di fuori dell’uva. Sono piccole dosi di zolfo, senza il quale sono sempre più convinto che sia impossibile fare il vino, perché il prodotto primario dell’uva non è il vino, ma l’aceto. L’uomo deve far sì che il vino non diventi aceto. Si tratta solo di capire come usare i solfiti, quando e in quale quantità, perché per fare un grande vino è molto importante intuire in quale momento agire, fare un travaso, una follatura. Non puoi vivere pelle a pelle con il vino che stai facendo senza trasmettergli il tuo pensiero e la tua anima.
Qual è stata l’annata che ti ha fatto maggiormente soffrire?
L’annata 2000 è stata una delle mie annate più sofferte. Se avessi avuto la possibilità di non vendere, non avrei venduto il vino. Non dormivo la notte perché il vino non mi piaceva. In realtà nel mio pensiero era già in arrivo l’Anfora, che doveva già arrivare quell’anno. Però, a causa di alcuni problemi in Georgia, le anfore mi sono arrivate a vendemmia finita.
Che vendemmia è stata la 2000?
Abbastanza buona. Durante la vendemmia ci fu molto caldo e con la fermentazione nei tini di legno la temperatura è salita un po’ troppo, con il rischio di avere delle acidità volatili un po’ alte. Malgrado la delusione del momento, dopo dodici anni sono contento perché il vino regge molto bene e sta diventando sempre meglio. È chiaro che un grande vino non è che lo diventa man mano. Deve esserlo fin dal principio. Però, se qualcosa ti sfugge di mano durante la lavorazione, non è necessariamente perso. È come dare uno schiaffo a un bambino. Non lo dimentica più. Anche se non fa più male, il ricordo rimane per tutta la vita. E così è anche con gli sbagli che si possono commettere durante le fasi della vinificazione. Lì è stata l’inesperienza, perché non ero ancora maturo. Probabilmente ero troppo giovane. Il mio rapporto col vino consisteva nell’agire e nell’intervenire il meno possibile, con meno aggiunte possibile, meno solforosa possibile, e questo modo di operare, durante la fermentazione, crea la possibilità che poi nascano dei problemi. Poi, il vino lo assaggiate voi. Sarete voi a dirmi se vi piace o non vi piace. Perché nel mondo del vino ci sono due modi per fare vino: o ti basi su una ricerca di mercato che ti dice cosa piace in quel momento al pubblico, oppure fai il vino che piace a te. Io cerco di fare quello che piace a me. Perché tanto non mi cambia niente. Uno poi sceglie. Se non gli piace il mio, prende quello di un altro. Secondo il mio punto di vista, sono convinto che più andrò avanti e più avrò estimatori. Spero che sia così. Adesso comincia a esserci la moda dei vini naturali e biologici, e questo è un grosso problema, perché ogni moda porta con sé dei produttori che vogliono cavalcare la moda del momento. Le critiche mi interessano molto perché sono quelle che fanno crescere. Non è che per questo io cambierò qualcosa, però mi interessano.
La Ribolla è in purezza. Come è nata l’idea di fare un assemblaggio?
Il Breg nasce da quattro vitigni internazionali, che io chiamo convenzionali, perché si adattano a tutte le terre del mondo. I vitigni convenzionali non danno mai il massimo. Una vite che si adatta a tutte le situazioni del mondo non può sicuramente competere nella produzione di grandissimi vini con quelle che si adattano solo a un territorio…
Come il Nebbiolo…
Come la Ribolla. E per rimediare allo sbaglio di aver impiantato i vitigni del Breg in terra da Ribolla non mi rimaneva altro che fare un assemblaggio. Non vuol dire che il vino non sia buono. Però il vino, per essere grande, secondo me, deve essere autoctono. Vuol dire che per tanti anni le radici devono affondare nella stessa terra, per poi dare questo massimo di concentrazione, di aromi, di mineralità. L’annata 2012 sarà l’ultima annata di produzione del Breg. Dopo la vendemmia 2011 è stato estirpato un vigneto di due ettari di Sauvignon, piantato nel 1984, che a ventisette anni aveva raggiunto il massimo delle sue potenzialità per fare grandi vini. Una parte di questo Sauvignon sarà imbottigliato in purezza. Farà un anno di anfora e poi altri sei anni di affinamento in botte grande. Quindi sette anni. Per me il numero sette è magico. Secondo Rudolf Steiner un bambino a sette anni compie la prima adolescenza, a quattordici la più importante, a ventuno è maggiorenne, a ventotto sei adulto. Ogni sette anni gli esseri umani cambiano tutte le cellule. Questa è una cosa che voglio aggiungere al mio vino. Dall’annata 2007 in poi tutti i miei vini bianchi fanno sette anni di affinamento. Quindi l’annata di Breg 2012, se la natura lo permetterà, cioè se non avremo la grandine, sarà l’ultima, e sarà in vendita a febbraio 2020. Adesso sono sedici anni che non ho un chicco di grandine, quindi prima o poi arriverà. Non è che la sto chiamando, ma comunque non mi dà neanche fastidio, perché comunque per sedici anni mi ha lasciato lavorare in pace e quindi anche lei, ogni tanto, ha il diritto di fare qualche disastro. In fondo non è un disastro. Ti fa capire ancora di più la terra.
Lo scorso luglio ho avuto il privilegio di assaggiare quel Sauvignon mentre era ancora in anfora e ho avuto la netta sensazione che si fosse in qualche modo “ribollizzato” o, per lo meno, stesse andando in quella direzione… Era solo una mia impressione?
Lì era solo una questione di vendemmia tardiva, per dare più struttura. Ma in fondo è un po’ così.
Sono rimasta profondamente colpita da un tuo discorso che spiegava che cosa significa vivere su un confine. Nel tuo caso il confine è un concetto molto reale, dal momento che metà delle tue vigne stanno in territorio sloveno, però a me piacerebbe approfondire proprio il concetto di confine in relazione alla tua sperimentazione. A questo proposito mi viene in mente un passo del 1970 di Mario Soldati, il quale, in un capitolo che chiama “Incanto delle frontiere e apologia della bi-cittadinanza”, scrive che ciò che “commuove e sconvolge” quando passiamo il confine è la sensazione di cambiare o anche solo di poter cambiare. Insomma “una impagabile sensazione di libertà”. Quanto ha influito nelle tue scelte vivere in un luogo di frontiera?
Il confine è un limite dell’uomo che non dovrebbe esistere. Io dico che la terra deve essere della gente. È indifferente quale lingua uno parli, tutto deve essere libero. Il confine era sotto casa mia, a duecento metri dalla mia casa, e nel corso degli anni continuava a spostarsi avanti e indietro. È incredibile che negli anni Duemila ci fossero ancora dei confini. Quando l’Europa si è finalmente unita e sono cadute le frontiere, per me è stato un grande giorno. Veder cancellati i confini dietro casa mia è stato un traguardo che solo venti anni fa non mi sarei mai sognato. Non pensavo che sarebbe mai arrivato quel giorno. Spero che duri nel tempo perché, per come sta andando avanti il mondo, ho paura che tutto questo prima o poi finisca di nuovo, perché purtroppo la stupidità umana e la mancanza di etica possono fare in modo che questa situazione non duri, che i muri vengano ricostruiti, i confini ridisegnati.
Tu fai due vini bianchi. Il Bianco Breg (un assemblaggio di Sauvignon, Pinot grigio, Chardonnay e Riesling Italico) e la Ribolla. Parlaci del Bianco Breg 2000…
Malgrado tutto, è un vino che ha ancora vent’anni di vita. Adesso ha dodici anni ma, per come va l’andamento del vino, sono convinto che nei prossimi vent’anni sarà sempre più grande. Una cosa molto importante nella produzione del vino è pensare di fare un vino che superi l’età di chi lo fa. Se ha la fortuna di vivere a lungo, comunque è una cosa molto importante. È per questo che dico che un vino serio deve contenere tre elementi fondamentali: lieviti, batteri ed enzimi. Senza questi tre elementi per me il vino è una bibita che fa più male che bene. Quindi bisogna stare sempre molto attenti. Io, a casa mia, ho dei vini di annate ’89, ’90, riserve messe da parte, che quando avranno ventotto anni metterò in vendita. Al consumatore dirò che io, quel vino, non lo bevo più perché è un vino che è stato filtrato. Sarà difficile venderlo, ma io credo che ci sarà qualcuno che lo vorrà comunque. Io, la mia coscienza, voglio averla pulita. Per questo dirò che io, quel vino, non lo bevo più.
La difficoltà di fare paragoni tra i suoi vini e gli altri sarà ancora più evidente quando assaggeremo le versioni in anfora, ma già così ci si rende immediatamente conto che anche le versioni pre-anfora si staccano totalmente da qualsiasi vino convenzionale abbiamo mai assaggiato. Il primo parametro, come ha ribadito poco fa Josko, è che fare un vino che non sia longevo non ha alcun senso perché il vino, essendo vivo, ha una vita simile a quella degli esseri umani: come noi nasciamo, cresciamo, invecchiamo e moriamo, così un vino ha una sua parabola che non finisce con l’affinamento in bottiglia, ma prosegue nel bicchiere, dove il vino subisce un’ultima evoluzione. Dunque degustare i suoi vini significa vivere un’esperienza tridimensionale a cui si aggiunge una quarta dimensione: quella del tempo. Significa bere dei vini che mutano con noi, che condizionano il nostro stato d’animo, che respirano con noi e che, come noi, cambiano man mano che il tempo passa. Josko lancia costantemente una sfida al tempo che passa: i suoi vini si possono degustare anche se sono aperti da qualche giorno. Provare per credere. Con i vini in Anfora, si assiste a un salto ulteriore nella ricerca di Josko perché i vini in Anfora non descrivono solo la storia di ciascun essere umano, ma ci parlano della storia della nostra specie.
Torniamo a noi. La Ribolla è il vitigno che da sempre si trova nella terra di Oslavia. Come hai giustamente detto in un’intervista che hai rilasciato lo scorso anno, quando si punta su un cavallo di razza, si punta su ciò che può dare il massimo. E tu, vivendo a Oslavia, punti giustamente sulla Ribolla. Come sei arrivato a questa decisione?
Per quanto riguarda la Ribolla, già nell’82 avevo le idee chiare. Ricordo che quell’anno Gino Veronelli è venuto a trovarmi per la prima volta. Era un avvenimento talmente serio che ero fuori di testa dalla contentezza perché era incredibile avere lì Gino Veronelli in cantina, in carne ed ossa, quando tutti gli altri produttori gli correvano dietro. Gino Veronelli è venuto da me senza che io glielo avessi chiesto. Abbiamo parlato spesso dei miei vini e proprio quell’anno gli ho detto: Gino, il mio obiettivo è di riuscire un giorno a fare solo la Ribolla. Gino mi ha risposto che era un vero peccato abbandonarli perché facevo un ottimo Sauvignon e un ottimo Chardonnay. Io gli ho risposto che la Ribolla era diversa: lei aveva radici nella mia terra da cinquecento anni. Bene. Dopo una settimana Gino mi ha chiamato al telefono e mi ha detto: Josko, hai sbagliato l’età. Non sono cinquecento anni che è nella tua terra. Sono mille anni… Era andato a documentarsi. Mi ci sono voluti trent’anni per fare solo Ribolla. È stato un percorso che ha richiesto tempi molto lunghi. Dall’oggi al domani non si riesce a fare niente, quindi è molto importante cercare di fare meno sbagli possibile perché hai solo una vendemmia all’anno, quindi se sbagli il momento o il modo di pensare, hai perso l’anno di lavoro. Che non è del tutto perso, però è perso nel momento in cui ti accorgi che potresti fare meglio. Perché, se invece non ti accorgi, tutto fila liscio, tutti sono contenti, e tu continui a fare sempre gli stessi sbagli.
E all’Anfora come sei arrivato?
All’Anfora sono arrivato molto più tardi. Da giovane non avevo molto tempo per viaggiare. Nell’87 ho fatto il primo viaggio in California. Per me è stato molto importante perché dopo dieci giorni di viaggio con un gruppo di produttori e dopo aver assaggiato circa mille vini, sono tornato a casa da mia moglie e, quando mi ha chiesto che cosa avevo imparato di nuovo, io semplicemente ho risposto che avevo imparato cosa non dovevamo fare. Perché erano i primi vini che assaggiavo con aggiunta di aroma sintetico. Era il giugno del 1987. A settembre dello stesso anno, in una degustazione organizzata in Friuli, ho bevuto il primo vino friulano del Collio fatto con aggiunta di aroma sintetico. Senza il precedente assaggio in California, dove ci avevano spiegato tutto questo con orgoglio, probabilmente non lo avrei mai capito. È lì che ho iniziato a ribellarmi. In quel momento il primo pensiero che mi è venuto è stato: devo capire in che posto è nata la viticoltura. Nel frattempo sono andato a trovare Gino Veronelli e lì, per puro caso, ho conosciuto il Professor Attilio Scienza, il quale mi ha parlato tanto del Caucaso e mi ha messo una pulce nell’orecchio. Ecco perché nel 2000 ero già pronto a iniziare con le anfore. In realtà ero già pronto prima, però con la situazione politica che c’era in quel momento nel Caucaso non è che potevo fare un viaggio. Io ho una testa da contadino. Per me viaggiare non è tanto semplice, perché non so l’inglese.
Come sei arrivato a fare macerazioni prolungate?
Dall’annata ’90 all’annata 2000 ho iniziato a macerare le uve bianche. Questa è un’idea che viene soprattutto dalla Ribolla. La Ribolla è una grandissima uva anche da mangiare. Per capire bene un vino, devi assaggiare l’uva da cui proviene e, a partire dall’uva, devi arrivare al vino. Altrimenti è molto difficile capire un vino se non hai assaggiato prima l’uva. Dall’uva poi il pensiero deve andare a produrre vino. Quando vinificavo la Ribolla in bianco, la parte migliore della mia Ribolla andava in distilleria. Perché non c’è niente da fare, è un’uva talmente grassa, talmente ricca e piena, che era difficile estrarre tutto quello che c’era dentro. Quindi è stata proprio l’uva di Ribolla a farmi iniziare a fare la macerazione. Le prime annate avevo già fatto delle prove. Con l’annata ’94 la macerazione è stata poi assemblata con la vinificazione in bianco, però lì avevo già capito che si poteva fare di meglio. L’annata ’97 ha fatto quattro o cinque giorni di macerazione. In quegli anni ero ancora convinto che un’uva bianca non può finire la fermentazione con la vinaccia. Avevo molta paura che, torchiando un’uva bianca che ha finito la fermentazione, avrei ossidato il vino. Quindi facevo un paio di giorni di fermentazione, in modo che ci fossero ancora gli zuccheri. Fatta la torchiatura, il mosto continuava poi a fermentare in botti di legno. Andando avanti negli anni, l’annata 2000 ha fatto dodici giorni di macerazione e mi è sembrato di aver raggiunto il massimo. È chiaro che con l’Anfora tutto questo si è ribaltato, perché con l’annata 2011 abbiamo torchiato le uve il 30 e il 31 di marzo perché era luna favorevole.
So che per tutti i lavori di potatura, di travasi e di imbottigliamento segui il calendario di Maria Thun. Puoi spiegarci perché?
Seguire la luna è un po’ come avere o non avere la fede. Per quanto riguarda la luna, se si interviene nel momento favorevole, sicuramente se bene non fa, non fa neanche male. È chiaro che mi porta via del tempo, perché avere un programma da calendario per un contadino è una cosa molto difficile, perché io cerco di vivere in modo libero e di non vivere di programmi. Il mio programma è fatto di giorno in giorno, perché non puoi fare diversamente. Anche il programma di lavoro deve essere fatto quando vado a vedere i vigneti e lì mi rendo conto che l’indomani c’è da fare un lavoro. Non posso dirlo tre giorni prima perché poi la natura ha il suo corso e non la puoi controllare. È inutile programmare, non si può programmare niente, devi solo correre da un vigneto all’altro per vedere dove è più importante lavorare per evitare certi inconvenienti che ti possono capitare. Mio papà, che era un grandissimo contadino, quando ho iniziato a parlargli della luna, mi ha detto: Josko, chi guarda la luna, va nel fosso. Mio papà non credeva nella luna. Era più concreto lui. Invece io ho iniziato già da giovane a pensare questo. Quando mio papà era ancora vivo, abbiamo tagliato un bosco per ricavare i pali di acacia per il vigneto e in quel momento gli ho detto: papà, lasciami provare a tagliare parte del bosco con la luna favorevole e parte con la luna sfavorevole. Nel frattempo mio papà è mancato. Sono passati quaranta anni e i pali ricavati dal legno tagliato con luna favorevole sono ancora adesso nel vigneto. Gli altri, con luna sfavorevole, dopo dieci anni ho iniziato a cambiarli. La luna ha una influenza incredibile sulla natura. Poi non è solo la luna a influire, anche i pianeti e le costellazioni hanno la loro importanza. Io non ho approfondito questi studi perché sono studi troppo difficili per me, ma seguo comunque il calendario di Maria Thun. Tanto per fare un esempio, il giorno in cui c’è stato il primo terremoto a Ferrara, sul calendario per quel giorno era segnata un’alta probabilità di terremoto.
Come sei arrivato al concetto di sottrazione?
Il passaggio all’anfora è legato al pensiero della ricerca dell’acqua pulita. L’acqua pulita la si cerca alla sorgente, non alle foci. Quindi se io cerco l’acqua pulita alla sorgente, io devo capire la Storia. E tornare indietro a vedere come sono stati fatti i primi vini. Perché il vino non è tecnologia. Il vino è un alimento, e quindi va manomesso il meno possibile. Se compro un computer, esco dal negozio e il computer è già vecchio perché la tecnologia è talmente avanzata che tutto invecchia rapidamente. Il vino invece finisce nello stomaco, non ha bisogno di tutto questo. Ha solo bisogno di grande uva, quindi di partire da grandi terreni, possibilmente in collina, e poi di fare tutto il minimo indispensabile per arrivare a fare un grande vino. Per fare un grande vino non serve aggiungere. Serve togliere. Fare solo quello che serve. Con il vino volevo tornare indietro, e capire. Quando sono tornato a casa dalla California, ho detto a mia moglie che mi sarebbe interessato visitare quei posti dove probabilmente è nato il vino. Ci sono tre di questi posti: la Mesopotamia, l’Anatolia e il Caucaso. In Mesopotamia la coltivazione dell’uva è sparita e quel poco che fanno, lo fanno per lo Zibibbo. In Anatolia la viticoltura è stata abbandonata per via della fede musulmana che non permette di bere il vino e gli alcolici. In Caucaso tuttora fanno dei vini. La qualità è quella che è, perché dove c’è la miseria non puoi pensare alla qualità, lì devi combattere per la sopravvivenza. Il fatto di aver scelto l’anfora è molto semplice. È un pensiero che ti viene spontaneo. La terra ha la vite per far nascere l’uva e, quando hai l’uva, hai la terra per far nascere il vino. Sono dieci anni, dall’annata 2001, che non mi permetto di controllare un grado zuccherino, e non me lo permetto per un semplice fatto, perché parto dall’idea che non si aggiunge e non si toglie. Non voglio saperlo perché mi va bene quello che c’è dentro. Nelle uve su cui ho rischiato di più, ho più qualità, quindi non c’è bisogno di controllare niente. Allo stesso modo sono dieci anni che non controllo la temperatura di fermentazione. Perché è quella giusta. È chiaro che, quando faccio le follature, vado anche con la mano dentro nel mosto, ma trovo sempre la temperatura giusta. Non c’è bisogno del termometro. Perché un termometro può essere anche sballato, quindi non sempre dice il vero. E poi, chi è il mago che dice a che temperatura deve fermentare un mosto? Io devo mettere a proprio agio la materia prima “uva” che non si sceglie la sua temperatura di fermentazione. Questo è il massimo che si può fare. Diciamo che in questi dieci anni, con questo modo di fare il vino, finora non ho perso neanche un’anfora. Credetemi, non c’è un’anfora che mi è andata a male.
Anche perché nell’anfora, essendo interrata, c’è una naturale termostatazione. La terra dà una grande occasione…
La terra è quella che ci dà da vivere e che poi assorbirà anche noi. Vale anche per le patate. Dopo che sono state tolte dalla terra, per conservarle al meglio dobbiamo dopo un po’ di tempo interrarle di nuovo per averle più a lungo possibile, perché la terra ha proprio questa funzione, quella di conservare. L’Anfora – e questo è un pensiero di Filippo Polidori – per il vino è come un amplificatore. È chiaro che con una musica non buona è meglio non usare l’amplificatore perché ne accentua maggiormente i problemi, i difetti, i lati sgradevoli. Anche a questo serve il vino fatto in Anfora. Non è che, mettendo in anfora dell’uva non adatta, con la macerazione lunga ottieni un vino migliore. Per la macerazione lunga devi avere davvero delle grandissime uve. In Caucaso tuttora ci sono due zone preferenziali per fare vino. C’è la zona di Kakheti, che è a sud della Cecenia e del Caucaso, e c’è la zona di Imereti in centro della Georgia. A Kakheti tutto viene fatto con macerazioni lunghe. A Imereti non si fa macerazione. Qui adesso i produttori che vogliono fare il vino in anfora fanno dappertutto macerazione. Sono loro che dovrebbero vedere se i loro figli sono pronti per la macerazione lunga o no. Questo è un punto molto difficile perché purtroppo ogni genitore è convinto che i propri figli siano migliori di quanto sono in realtà. Io, su questo punto, ho finalmente capito. Come so valutare i miei figli, so valutare anche le mie uve se sono capaci o no di affrontare una macerazione lunga. Questo è un discorso molto difficile. Perché il vino è sempre nel pensiero di chi lo fa. Ultimamente sono stato anche attaccato dalla stampa per via del fatto che ho rilasciato un’intervista a un giornalista, a cui ho detto che il mio vino sa da chi viene assaggiato. Se io assaggio il mio vino con una persona che non apprezza il mio lavoro, il mio vino si chiude e anche a me non piace. Mi ha preso per matto, però io sono convinto che è così. Sta a noi d’ora in poi cercare questi vini non omologati, che non vengono fatti da laboratori, con le analisi sulle uve. Si inizia ad analizzare l’uva a metà luglio per capire quando sarà il rapporto acidità-zucchero ottimale. Ma questo è un errore. Vi faccio un esempio. Il 2008 è stato un anno con tanta pioggia. Le prime piogge sono arrivate ai primi di aprile e si sono prolungate fino alla prima settimana di agosto. Nella mia zona facevano sempre la raccolta degli acini per mandarli ad analizzare persino in Piemonte, perché dal Piemonte poi ricevevano l’ok per iniziare la vendemmia. Bene. Hanno iniziato a vendemmiare il 12 agosto. Noi, invece, abbiamo incominciato la vendemmia il 25 settembre con il Pinot grigio e l’abbiamo finita con la Ribolla il 26 ottobre. E abbiamo fatto una grandissima annata perché la Ribolla è stata vendemmiata il 24, il 25 e il 26 ottobre e in tre giorni abbiamo finito di vendemmiare. Non abbiamo quantità tali da poter fare delle vendemmie che durano a lungo, però è importante che l’uva venga vendemmiata molto matura, e devo dire che abbiamo avuto una grandissima annata. Se avessi raccolto prima, l’avrei persa. Quell’anno mi ha fatto capire che non c’è la grande annata e la piccola annata. Tutte le annate sono grandissime, perché il dio-natura non ha creato l’annata per noi. Siamo noi che viviamo l’annata e noi dobbiamo comportarci secondo quello che la natura ci dà in quell’annata…
…che è l’interpretazione?
Io la chiamerei intuizione. È una cosa molto interessante. Un contadino deve capire quando deve intervenire, quindi l’intuizione di chi fa vino sta al primo posto. L’intuizione è più importante della conoscenza, perché la conoscenza attraverso i libri è importante, impari tanto, però devi capire tu il modo e il momento in cui intervenire, come coi bambini. Purtroppo ho avuto dei bambini che ero molto giovane e tutte queste cose mi sono sfuggite perché non avevo il tempo di curare quello che era più importante di tutto. Io mi alzavo presto la mattina, andavo nei vigneti, ero anche con i miei bambini, però troppo poco. Ero giovane e la mia testa ragionava in modo diverso. Per quanto riguarda l’annata 2000 mi aspetto qualche critica. Io continuo a dire che un vino semplice al primo assaggio può non piacere, ma poi se lo riassaggi, piace un po’ di più, e poi si rischia di vuotare la bottiglia. Il vino “furbo” funziona esattamente al contrario. Piace al primo assaggio, al secondo piace un po’ di meno e alla fine rimane nella bottiglia. A me tutto questo non interessa più, perché neanche assaggio un vino quando so come è stato prodotto. Con questo non voglio sminuire il lavoro degli altri. Credo di potermi permettere di dire questo perché, se posso dire che il mio vino di un tempo non mi piace, allora posso dirlo anche del vino di un altro produttore, fatto in modo completamente diverso dal mio, quindi con l’aggiunta di lieviti selezionati, di enzimi e di aromi. Un vino così non perdo più tempo neanche a metterlo sotto il naso, perché è contro il mio modo di vedere il vino e, soprattutto, è segno di una mancanza di rispetto nei confronti della natura. A proposito della chiusura di una bottiglia, voglio dire una cosa. Se io vedo una bottiglia chiusa col tappo a vite o corona o col tappo sintetico, è già chiaro che è un vino che non assaggerò. Mi vengono i brividi solo a pensare se dovessi aprire una bottiglia chiusa a vite. Non esiste. L’unica chiusura di una bottiglia è il tappo di sughero. È chiaro che poi dobbiamo accettare l’idea di perdere qualche bottiglia per il gusto di tappo, però fa parte del discorso. È come avere l’asino in casa. Il pelo c’è. E se hai l’asino in casa, devi accettare anche quel poco pelo che ti lascia per terra. Per quanto riguarda il gusto di tappo, dobbiamo cercare di scegliere un bravo produttore, ma anche lì, le analisi non servono a molto, è solo la fiducia del produttore che ti sceglie la pianta giusta, e poi la serietà della lavorazione.
Com’è stata l’annata 2001 rispetto a quella precedente?
È stata un’annata più piovosa però, avendo un anno di esperienza in più con l’anfora, era già stato fatto un passo in più di miglioramento. È chiaro che poi ogni anno, ogni sbaglio che hai commesso quell’anno devi cercare di correggerlo l’anno dopo. E poi arrivi a un punto che capisci che, per riuscire a impegnare tutto te stesso e fare un vino serio, l’età deve crescere e i capelli devono diventare ancora più grigi, perché è chiaro che a trent’anni il vino non era il mio problema principale. A quell’età c’erano i problemi dei trent’anni. Come per ogni persona di trenta, quaranta anni, poi il tempo passa e fa sì che certe cose che prima avevano un valore primario, passino in secondo piano, e fa sì che ti dedichi ad altre che prima non esistevano. Poi, se durante il percorso ti capita anche qualche incidente, quello deve aiutarti a non guardare più tutte queste cose piccole. I guadagni ci devono essere perché è il sistema che ci viene imposto così, oggi tutto purtroppo è basato sui soldi, però io in casa mia non ci bado. C’è mia moglie che se ne occupa. Per fare veramente bene il vino, io non mi devo mai porre il problema di quanto mi costa la produzione, perché altrimenti mi fermo prima di iniziare. Negli ultimi anni sono maturato talmente tanto che il pensiero di questi ultimi giorni (un pensiero che mi sta nella testa e a cui non riesco a smettere di pensare) è di eliminare anche la diraspatrice, per il semplice fatto che la diraspatrice è usata da appena cento anni. Se una cosa è arrivata con cinquemila anni di ritardo, vuol dire che dobbiamo fare a meno anche di quella. Ed è un obiettivo veramente alto. Per eliminare la diraspatrice dobbiamo ancora migliorare la produzione dell’uva. Dobbiamo cercare di vendemmiare quando il raspo è lignificato, perché altrimenti potrebbe esserci il problema dell’alcol metilico, che è dato dalla fermentazione del raspo a contatto con il mosto. Comunque anche questo discorso non mi preoccupa perché, se abbiamo una piccolissima dose di alcol metilico dato dalla fermentazione del raspo con il mosto, non è quello che ti farà male, anzi, è del tutto normale.
Cos’è cambiato da quando hai iniziato a fare il vino in anfora?
In casa mia, con l’arrivo dell’anfora, è cambiata l’atmosfera. Io ho iniziato a respirare ed è sparita la tristezza. È chiaro che cerchi sempre di migliorare una cosa, non è che vivi sereno, c’è sempre qualcosa che ti dice di stare attento. D’altra parte, penso che se un produttore è convinto di essere arrivato al massimo, in quel momento è finito. Vuol dire che si è spento quel fuoco, quella voglia di migliorare e di superare se stessi. Perché con il vino non arrivi mai in cima, sei sempre lì che ti arrampichi e non tocchi mai la cima. È questo il bello.
Fai parte di una scalata che dura da cinquemila anni e che proseguirà con altri che verranno dopo di te…
Sì, vuoi arrivare in cima, ma la cima non la raggiungi mai. Sei sempre lì che ti manca qualcosa. In ogni annata c’è questo. Anche quando riesci a fare dei grandi vini, la cima non la tocchi mai.
Un’immagine che mi colpisce sempre è quella dell’anfora vista come utero materno che accoglie la macerazione sulle bucce per nove mesi. Se ho ben capito, all’inizio non era così lunga…
No, infatti. Nell’annata 2001, visto che non avevo ancora tutte le anfore, una parte del mosto ha fatto macerazione in anfora fino a marzo, e un’altra parte ha fatto macerazione fino a fine dicembre-gennaio in legno, e poi sono stati fatti i passaggi in anfora. L’affinamento tra l’anfora e la botte di legno era di quattro anni ed era un passaggio interessante. Quattro anni è già un bell’affinamento. Il tempo ti permette di non aver bisogno di interventi di chiarifica e di filtrazione, perché imbottigliare un vino a quattro mesi dalla vendemmia è come comprare l’ultimo paio di scarpe a un bambino di sette anni. È impossibile perché ha il piede ancora piccolo e noi dobbiamo aspettare che il piede cresca al suo massimo. Viene imbottigliato quando tutto è maturo, quando biologicamente tutto è pronto e quindi non hai paura delle rifermentazioni in bottiglia, perché gli hai dato tutto il tempo che serviva, e se doveva rifermentare qualcosa c’era la botte, quindi poteva comodamente svolgere la fermentazione. È il modo più semplice, secondo me. Certo, esige anche più lavoro perché in sette anni i vini dell’annata 2007, lungo il percorso hanno avuto anche tanti problemi, perché anche nel vino è come nelle persone, ci sono sempre sia l’angelo sia il diavolo, e il diavolo è sempre più forte. Noi dobbiamo dare precedenza all’angelo in modo che noi viviamo bene e che anche il vino viva bene. Col vino bisogna sempre stare attenti che l’acidità volatile non ti freghi, perché è la cosa in assoluto di cui avere più paura. Se l’acidità volatile sale troppo, il vino sa di aceto. Lì non c’è ritorno. E guardate, la natura ha predisposto tutto questo, che se il vino diventa aceto, non va bene neanche per condire l’insalata, perché l’aceto di vino è fatto da uva ricca di acido tartarico. Se viene usato per condire l’insalata, consuma il calcio delle ossa. L’aceto deve essere fatto da frutta che è ricca di acido malico: mele o pere o prugne, tutto quello che si può, perché se metti a macerare un frutto che ha dentro zucchero, fermenta da solo senza nessun intervento e dà l’aceto. Io finora sono riuscito a fare quattro tipi di aceto diversi. Arriverò a sette, però devo avere ancora un po’ di tempo per capire che frutta usare, perché deve essere ricca di zucchero, altrimenti non viene bene. Forse sono uscito un po’ dal perimetro, ma tutto serve per capire come fare certe cose.
Io so che nel 1996 tu stavi già studiando il pensiero di Rudolf Steiner e dei vignaioli biodinamici francesi. Che cosa pensi del mondo del vino naturale oggi in Italia?
In questo momento incominciano a fare moda i vini chiamati naturali. Quando una cosa incomincia a fare moda, c’è da avere tanta paura. Dieci anni fa molti contadini disprezzavano il mio lavoro e il mio vino e, quando ordinavano il mio vino al ristorante, lo facevano tornare indietro. Era una cosa premeditata perché, quando hai i contenitori di acciaio, filtri il vino e fai vino convenzionale, è chiaro che se arriva uno che fa tutto il contrario, non la prendi bene. Molti di quei produttori adesso parlano di vino biologico, di vino naturale. Io diffido di questo. E poi non c’è bisogno di dire che un vino è biologico o naturale. È logico che il vino debba essere fatto così. Io non ho bisogno di un timbro per confermare che il mio sia un vino naturale. È una questione etica: senza dire che è biologico, devo fare un buon vino. E questo a me preoccupa molto, perché ci sono dei produttori che mettono sul mercato vino che è già aceto e lo passano come vino naturale. Siccome è naturale, per forza è così. Non è vero. Il vino deve essere buono, altrimenti non importa se viene chiamato naturale, no? È un danno che anch’io mi porto dietro, perché molti consumatori, quando devono affrontare un mio vino, dicono che fa parte di quei vini naturali che non vanno bene, che sono rovinati, e non lo vogliono. È importante che, innanzi tutto, un vino sia buono. Io non mi posso aspettare che, se oggi siamo qui in sessanta persone, il mio vino piaccia a tutti, però per prima cosa il vino deve piacere a me. Io ho un tipo di gusto, mi fido del mio gusto, perché è da anni che cerco di migliorare sempre, ed è chiaro che questo non può piacere a tutti, però non è neanche importante, no? È importante che piaccia a me. Poi voi avete la possibilità di scegliere. Non è importante se a voi piace o no, perché voi avete la possibilità, se non vi piace, di sceglierne un altro… È evidente perché cerco di fare il vino che piace a me. Altrimenti dovrei fare dei vini convenzionali e lì la platea dei consumatori a cui piacciono è sempre più ampia. Io dico che, quando il dio-natura distribuiva i sapori, molta gente ha marinato quell’ora di scuola. Non potrà mai capire che cosa è buono perché non ha il palato per capire. Ma non è una cosa che si può dire, perché io rispetto ogni persona, e ognuno ha il suo modo di capire la qualità del vino e del cibo… Un giorno è venuto a trovarmi un pensionato e mi ha detto che il mio vino non riesce a berlo perché non gli piace e non è buono. E io gli ho risposto: hai settanta anni, da cinquanta bevi vino della Cantina Sociale, ti sei fatto quella bocca, ti piace quello, ma ciò non vuole dire che, se piace a te, allora è buono. Quindi non puoi dirmi che il mio non ti piace perché non è buono. Se non è buono, non è buono. Se non piace, è un altro discorso.
Come ti ho già raccontato, in più di un’occasione mi è capitato di vedere i tuoi vini comprati e analizzati, non per cercare di comprendere la filosofia che c’è dietro, ma per cercare di capire quale fosse il trucco o per trovarci un difetto, perché da molti eri considerato un impostore molto scaltro che andava smentito e smascherato. È chiaro che poi, quando non riuscivano a coglierti in fallo, perché il trucco non c’è, ci restavano male. Il problema con i tuoi vini è che, a prescindere che piacciano o meno, sono tecnicamente ineccepibili. E questo destabilizza.
Quando andavo a scuola ci portavano a visitare le aziende. Quella che più mi è rimasta impressa, era il 1969, è l’azienda Marzotto a Portogruaro, dove avevano una produzione di mille ettari di terreno per zootecnia. Avevano le mucche da latte. Mi ricordo come se fosse ieri che c’era una mucca chiusa in un box che produceva 57 litri di latte al giorno, con il veterinario che dormiva con la mucca. In breve tempo c’è stato il caso della mucca pazza e delle quote latte, con il latte in eccesso da buttare via. A cosa serve tutto questo veramente? È un controsenso. Sono delle forzature. Forse è questo che mi ha spinto a eliminare l’acciaio e tutto quello che non fa parte del mondo del vino perché è arrivato negli ultimi cento anni. Negli anni Novanta mi sono detto: qui stiamo rischiando il vino pazzo. Quando arriverà, io non voglio essere su quel carro. Questo era un punto fondamentale per il quale ho iniziato a cercare l’acqua pulita. Credetemi, ci sono dei vini che si stanno ribellando. Sono nell’acciaio, non sono ancora stati imbottigliati e già sanno di tappo. Com’è possibile che succeda? Succede perché un vino è un essere vivente e quindi, quando vuoi sfruttare troppo e approfittare troppo, il vino si ribella.
Di anfore ne hai 46. Le bocche delle anfore stanno all’altezza del terreno, che è terra battuta. Come sono chiuse?
Quando finisce la fermentazione, vengono chiuse con un tappo in granito. Tra la pietra e l’anfora c’è il mastice enologico, quello per chiudere anche le botti di legno, le portelle. Potrei chiuderle con l’argilla che ho portato dal Caucaso, però ne ho ancora due sacchi e la tengo lì come un tesoro. Non voglio consumarla. L’argilla del Caucaso è come un mastice, una cosa incredibile. Guardate, le uniche analisi che ho fatto per quanto riguarda l’anfora sono state su questa terra e sull’anfora, perché in cantina ho 46 anfore, ma in realtà me ne erano arrivate a casa 90, il che vuol dire che le altre 44 erano rotte. Ho fatto le analisi per capire se contengono residui di cadmio e piombo, due elementi molto nocivi per la vita dell’uomo. Questi due elementi sono completamente assenti. Quando nel passato usavamo in cucina le pentole di terracotta di provenienza siciliana, a mia moglie piaceva cucinare in quelle pentole, però poi sono state tolte dal mercato perché contenevano cadmio e piombo. Quindi fare un vino in un’anfora fatta da una terra sbagliata può anche essere un danno.
Che volume hanno queste anfore?
Sono anfore di varia misura. Ogni anfora è fatta a mano. Per riuscire a fare un’anfora ci vogliono circa tre mesi di lavoro perché va fatta a strati di 15 centimetri. Piano piano questi 15 centimetri devono asciugarsi e l’ultimo strato viene messo con uno straccio bagnato in modo che lì l’argilla sia ancora umida. Tutte le anfore sono di diversa misura. Quando nel 2000 ho iniziato a ordinare le anfore, c’erano due produttori che ancora facevano anfore di queste dimensioni perché era una cultura che andava a perdersi. Credo di aver contribuito alla voglia di costruire nuove anfore. Che purtroppo adesso molti produttori iniziano a usare. Mi ricordo che un giorno avevamo dei giornalisti inglesi in cantina (io non parlavo inglese, era Miha a parlare con loro) e loro gli hanno chiesto se c’erano altri produttori qui in Europa che fanno il vino in anfora. Miha ha risposto: no, siamo gli unici. Io quello l’ho capito e gli ho detto: Miha, non è vero, ci sono anche altri produttori che fanno il vino in anfora. E Miha con semplicità mi ha risposto: papà, fare due anfore su una produzione di migliaia di ettolitri non è fare il vino in anfora. Aveva ragione, perché fare vino in un’anfora per darlo al cliente se quello te lo chiede, è una cosa veramente molto misera. Se io so che l’anfora dà una qualità migliore, non posso avere solo due anfore e il resto farlo in modo convenzionale… Vuol dire che cerchi solo uno sbocco commerciale e nient’altro. Sono talmente convinto che con l’anfora si ottiene il massimo che, quando ultimamente un amico mi ha chiesto quale sarà il prossimo cambiamento (sì perché, siccome ogni dieci anni cambio tutto, e visto che sono già dieci anni che faccio il vino in anfora, lui sostiene che a breve ribalterò tutto di nuovo) gli ho risposto che non ci sarà un altro cambiamento.
Non so se ti crediamo… Con te non si può mai sapere. Qual è stata fin qui la tua vendemmia più importante?
Sempre camminando sullo stesso sentiero, ogni anno cerco di fare il vino sempre più buono. Nelle ultime annate, a ogni annata che passa, secondo me, il vino è sempre più buono. Perché ho un anno di esperienza in più. Ogni anno che riesco a fare questo lavoro, i rischi diventano sempre più importanti, ma io ho sempre meno paura di rischiare. Quest’anno ho fatto la mia vendemmia più importante. È stata fatta l’11 e il 22 novembre. Appena finita la vendemmia l’11 novembre, mi sono accorto che dovevo aspettare fino al 22 per tutto il resto. Avevo paura, non per la pioggia che nel 2011 è stata quasi inesistente, ma perché c’era molto vento che mi ha buttato per terra un po’ di uva. Quel giorno mi sono detto: l’uva oggi è come il bue davanti alla stalla. Un vero peccato farsela scappare. Ma devo rischiare. Dovrò lasciarla scappare e, se non scappa, sarà davvero una grande vendemmia. Non è scappata. Però, se sarà davvero una grandissima vendemmia, lo sapremo solo il prossimo anno.
Come giudichi l’annata 2005?
Delle bottiglie finora in commercio, penso che l’annata 2005 sia la più importante, perché c’è tanta botrite nobile, e la botrite nobile dà la sensazione del dolce non dolce. È la cosa migliore. Prima ho detto che non c’è la piccola o la grande annata. Questo vale solo per il vino bianco, perché con le uve bianche hai la possibilità di avere la botrite nobile. Per il vino rosso non vale perché la botrite nobile non attacca le uve nere. Per questo motivo l’annata 2010 non ci sarà né per il Rujno, che è la mia Riserva di rosso, fatto da 90% di Merlot e da 10% di Cabernet sauvignon, né per il Pignolo. Sarà tutto Rosso Gravner. Perché la qualità dei rossi non è all’altezza di ciò che io desidero. Per i grandi rossi ci vuole tanto sole. E sarà l’annata 2011 ad avere grandi bianchi e grandissimi rossi. Nell’annata 2011, per la prima volta in assoluto (non credo che mio papà abbia mai avuto questo problema) ho dovuto iniziare la vendemmia con il Pignolo. È una cosa incredibile. Su 12.000 viti abbiamo prodotto 11 ettolitri di vino che è rimasto dolce, perché l’uva era appassita dal secco che c’era. E questo è un grande vantaggio per il vino perché anche nel vino, come in cucina, incominci con i primi piatti per poi arrivare ai piatti dolci. Io adesso ho già l’età per pensare di produrre un vino dolce. Nella Ribolla 2005, nel fondo della bottiglia, può esserci qualcosa di torbido. Non preoccupatevi, bevete tutto perché è vino. Non c’è niente di aggiunto. Il vino deve essere come un succo di frutta. Se un succo è pulito, vuol dire che manca tutta la sostanza.
Questi sono vini molto più importanti rispetto ai pre-Anfora…
Hai fatto una bellissima scelta a finire con questi, altrimenti te lo avrei detto io di fare così, perché quelli sono vini che non faccio più, quindi sarebbe stato inutile finire con quelli…
Il 2005 è splendido…
Negli Stati Uniti questo tipo di vino lo chiamano orange wine. Per me è riduttivo chiamarlo così. Ci sono dei vini fatti in questo modo che sono veramente degli orange wine. Il mio non lo è. Il mio è color ambra. Perché l’ambra è quella che ha la forza, ha un colore che brilla, ha il colore dell’oro, del sole, e questo fa una grande differenza tra l’ambra e l’arancione. Quando chiamano così il mio vino, io glielo dico che mi stanno offendendo. Non è che mi offendo per questo. Faccio solo capire che non hanno ragione. Certi vini fatti con macerazioni lunghe sono veramente orange wines perché hanno un colore arancione, ma non hanno la forza di essere vivi e questo credo che faccia la differenza. Il Breg, che è fatto anche con l’aggiunta di Pinot grigio, è effettivamente un po’ più carico, perché il Pinot grigio dà un po’ questa sfumatura di colore che non è neanche male. Per me il colore di un vino non ha molta importanza. Siamo sempre a guardare il colore della pelle di una persona, ma quello che conta davvero di una persona è l’anima. Tutto il resto è solo apparenza…
Anche se a livello visivo i tuoi vini hanno tutti colori molto belli… Il 2005 è un vino più importante rispetto agli altri. È un fascio di luce, con un nitore e una verticalità davvero emozionanti. È come se l’anfora avesse scardinato il vitigno e ne avesse svelato la vera natura, facendo emergere sfaccettature che, altrimenti, sarebbero rimaste inespresse. Non posso non pensare al meraviglioso profumo che si respira nella tua anforaia. La delicatezza di un vigneto in fiore unita all’intensità dell’esprit des anges che si respira in certe cantine di cognac… Un profumo inebriante che non assomiglia a nessun altro, frutto della sinergia tra l’anfora e le vendemmie tardive. Cambiamo argomento: che tipo di trattamenti fai in vigna?
Io dico sempre che non posso curare la pelle con la pomata. Il problema non arriva da fuori, arriva sempre da dentro, quindi devo capire che cibo mi fa male e intervenire lì. E così è con l’uva. Per riuscire a fare un’uva che poi ti aspetti che abbia la botrite nobile, devi lavorare bene nel vigneto, quindi devi eliminare tutte le cose sintetiche, quelle che circolano nella pianta, i prodotti sistemici. Poi devi avere la fortuna che il tempo ti aiuti a creare la botrite nobile. I trattamenti che noi stiamo facendo sono solfato di rame e zolfo. Zolfo viene usato sia bagnabile sia in polvere. È chiaro che anche questi due elementi inquinano la terra, però o facciamo questo o smettiamo di produrre vino. Ci sarebbe un altro modo, ma ci vogliono anni. Si può impiantare il bosco, e mettere vicino all’albero due o tre viti, in modo che si arrampichino sugli alberi. Sarà un modo per evitare tutti i trattamenti. È chiaro che lì non si potrà fare una cernita di uva, e pulire l’uva. Magari ci sarà anche più uva sulle viti, e la qualità sicuramente non sarà quella che si può fare da vigneto coltivato, però ho in mente un progetto: su due ettari vicino a casa mia farò un giardino di bosco, con queste viti che si arrampicheranno. Parto da questa idea per il fatto che un contadino non può produrre solo uva o frutta, deve pensare anche alla natura, quindi deve piantare anche un bosco, perché il bosco è il polmone della terra ed è fondamentale apportare anche questo.
Sì, ricordo che la prima volta che ci siamo incontrati mi hai detto che i contadini sono i più grandi inquinatori del pianeta.
Fa parte del mio modo di pensare e quindi io, per forza di cose, devo fare anche questo. In ogni vigneto, per lavorare bene, non c’è bisogno di dire biologico o biodinamico. Dobbiamo capire che dove non c’è acqua, non c’è vita, quindi in ogni vigneto di una certa consistenza da noi viene fatta l’acqua stagna, dove nasce la zanzara, che nutre l’uccellino. È tutto un continuo lavorare, e nel mezzo dei vigneti vengono impiantati gli alberi da frutto, qualche rovere, qualche carpino, qualche frassino. E su questi alberi poi verranno messi dei nidi artificiali in modo che lì nidifichino le cinciallegre. Lì si portano anche i nidi per i calabroni, che da ragazzi si andava con gli amici e di notte, in campagna, li si bruciava. Non si devono bruciare i calabroni perché la natura li ha portati per qualcosa. I calabroni si nutrono degli insetti che sono dannosi per le piante da frutto, quindi è chiaro che mangino anche qualcosa. Dobbiamo anche proteggerci da questo, però non possiamo ammazzare ogni creatura vivente. Guardate che è molto importante l’acqua stagna nel vigneto, o in campagna. Lì nasce tutto. Innanzi tutto, fa sì che ci sia un ciclo che si completa. Non è che questo mi permetta di non trattare più, ma intanto qualcosa per la natura ho fatto. In ogni trattamento che viene fatto, al rame e allo zolfo viene anche aggiunta la propoli, che è il più importante antibiotico naturale. E anche qui sono convinto che, se bene non fa, non fa neanche male. Viene usata a ogni trattamento e mi permette di non stare fermo per tre giorni, come dopo i trattamenti, e di andare a pulire le viti, perché se aspetto tre giorni fermo, non faccio più niente. Quando si fanno i trattamenti, nel momento in cui passa l’atomizzatore, usciamo dal vigneto e, quando è passato, siamo già dietro a pulire, perché non abbiamo paura di rovinarci la salute. Invece, mi basta un trattamento con un prodotto di sintesi per non riuscire a respirare nel vigneto. Guardate, quando si fanno questi trattamenti, il vigneto profuma di propoli. In futuro stiamo pensando anche all’uso delle alghe.
C’è qualche domanda dal pubblico?
(dal pubblico) A che temperatura le piace bere i suoi vini?
È una bella domanda. La temperatura di un vino è molto importante. È chiaro che d’estate, se il vino ha 25°C, metto la camicia attorno alla bottiglia per un paio di minuti, ma niente di più. Io lo bevo a 22°C anche d’estate. Il mio vino non viene mai refrigerato durante la fermentazione e quindi non va bevuto a 10°C. È un punto fondamentale. Per esempio, negli Stati Uniti, dove c’è questa abitudine al freddo dappertutto, quando sono stato a New York l’ultima volta, avevo paura che mettessero nel ghiaccio anche me. Il vino rimane talmente chiuso che non può essere bevuto freddo. Poi sa, è molto difficile dare consigli ad altre persone. Penso che sia molto importante che ognuno si scelga la propria temperatura. Io consiglio di non berlo sotto i 15°C. La temperatura va tenuta bassa nei vini dove hai da nascondere qualche difetto. Lì devi abbassare la temperatura. Con la temperatura alta vengono fuori anche i difetti se ci sono. È chiaro che durante l’inverno la temperatura è più bassa, e anche il vino viene bevuto più freddo. D’estate, non avendo vino nel frigorifero, la temperatura può essere più alta, però non è detto che per forza, se fuori abbiamo 40°C, il vino debba essere bevuto a 15°C. Può essere anche a 20°C. Sì, la temperatura è importante. Nell’anfora la temperatura che c’è è sempre giusta. Se non intervieni, va bene così.
Prima ha accennato al fatto che, a causa del maltempo, nell’annata 2010 non ci sarà vino rosso. Ci saranno i vini bianchi?
Nel 2010 la vendemmia l’abbiamo finita il 15 ottobre, troppo presto, ma non c’era altra possibilità, perché continuava a piovere. Ho fatto in modo di non raccogliere l’uva sana, aspettavo che diventasse botrite nobile, che è una cosa molto molto rara. Un’annata come la 2010 ero convinto che l’avrei saltata perché c’era un tempo disastroso. E invece abbiamo portato tutta l’uva in cantina con botrite nobile. È stato incredibile. Nell’annata 2010 tutto era perfetto. Dopo una pioggia di metà settembre, metà uva era con marciume acido e metà con botrite nobile. Sono delle cose che non si possono regolare. È la natura che ti dà quello che vuole darti e in quell’anno lo devi capire come fare tutti gli interventi, come fare tutto il lavoro. Nel 2010 un mio operaio, mi ha detto: Josko, mi permette di fare un grado zuccherino a questa uva di botrite? che poi è diventato un vino dolce. Io gli ho risposto di no, però poi dopo cinque minuti gli ho detto: prova a farlo, ma a me non dire niente. E lui non mi ha detto niente. Perché non voglio sapere. Perché non voglio caricare il pensiero di cosa c’è. È giusto quello che c’è, quindi non c’è bisogno di sapere.
A proposito della moda dei vini naturali, lei pensa che sia solo un fatto negativo o vede nella sensibilizzazione del consumatore un aspetto importante?
Rimane comunque una cosa positiva perché, se non altro, c’è più rispetto per la terra. È una cosa molto positiva, visto che c’è questa voglia di eliminare degli interventi e di fare dei vini molto più naturali e semplici. Però poi ci deve essere coerenza. Il problema, all’inizio, è che questo non è solo un modo di fare vino. È un modo di essere. Però, nel momento in cui diventa una moda, i più furbi saltano sul carro. Non mi fraintenda, non voglio dire che tutti sono furbi, perché c’è anche molta gente onesta, però c’è anche tanta gente furba che ha cambiato solo la pelle, ma non le abitudini. È un momento in cui funziona un certo tipo di discorso, quindi c’è la possibilità di vendere e si fa quello. Io dico, per fare vini semplici, vini naturali, devi vivere così, in modo semplice e naturale, non puoi mantenere il tuo stile di vita e cambiare solo il modo di fare il vino. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, c’è da stare molto attenti. E questi produttori che cambiano solo il pelo e non il vizio creano confusione nel consumatore. In questo momento c’è tanta confusione. Se provate a guardare un po’ indietro nel tempo, da una associazione che era sono già diventate quattro. E continuano ogni anno a dividersi e a fare nuove associazioni. Io ragiono da contadino. Un contadino per natura è un egoista, non è uno che si associa facilmente. Dire che uno è egoista non vuol dire che non dà niente a nessuno, vuol dire che è nella sua natura proteggere la sua terra e il suo lavoro. È così. Guardate, io ci provo. E non è che non sono altruista. Io ci ho provato, anche se adesso mi sono chiuso nel mio mondo. Quando siamo stati un gruppo di produttori, io tutto quello che ho sperimentato, tutto quello che ho sbagliato, l’ho detto agli altri. Nessun altro ha fatto questo per me. Anzi, quando il mio nome è calato tanto e sul mercato valeva poco, mi hanno abbandonato tutti. E lì ho capito che devo camminare da solo. Poi, per un periodo siamo rimasti in due, perché dicevo che non si può andare sul Monte Everest col pulmino. In tandem, mi son detto, va bene. Ti dà una mano. Non funziona neanche quello. Il Monte Everest lo devi affrontare da solo. Se sei capace. Perché, se sei in due, devi aspettare che l’altro ti aiuti se sei meno forte, oppure devi fermarti per aiutare l’altro se è più debole. Quindi tutte le cose importanti devono essere fatte da soli. Anche nel mondo del vino. Io ci ho provato. Ho cercato anche di dare una mano ad altri produttori, però credetemi, da me nessun altro produttore ha mai mandato un cliente. Questo è un modo di vivere. Non è essere egoisti. Oggi, con questo mondo di vini veri, diciamo vini naturali, c’è tanta confusione. Ci sono tanti vini con un’acidità volatile così alta che la legge dovrebbe proibirne la vendita. C’è una legge che dice: il vino bianco si può vendere con una volatile fino a 1,08. Come è possibile che vengano venduti vini che sono già aceto? Forse non si vuole intervenire perché si pensa che un produttore che fa quel tipo di vino, basta lasciar passare un po’ di tempo e si elimina da solo.
Grazie, Josko.
Grazie a te, che parli con il cuore. Questo mi piace tanto. È molto importante parlare con il cuore. Io non parlo con il pensiero perché se devo pensare qualcosa, già dimentico, quindi quello che il cuore, l’anima mi dice di dire, io dico. Non ho problemi neanche se mi faccio del male. È chiaro che venire qui a presentare un vino e dire che io, il mio Breg, non lo bevo più, qualcuno mi può dire che era meglio se restavo a casa… Comunque non mi importa, farò un’altra cantina per stivare le bottiglie di Breg. Se non venderò io il Breg, lo venderà chi verrà dopo di me. Perché nel momento in cui arrivi ad affinare per sette anni in cantina, poi questo risultato deve moltiplicarsi, sette per sette. Quindi cinquanta anni. Non c’è nessun problema. Chi verrà dopo avrà la possibilità di bere o di vendere. Quello che è importante è riuscire ad arrivare a cinquanta anni, perché il vino cresce con gli anni e quella è l’età che dà l’importanza, come alle persone. Quando avevo vent’anni vedevo quelli di trentacinque già vecchi. Più vai avanti con l’età, e più devi stare attento a non cedere nelle cose inutili. Devi far prevalere l’angelo, non il diavolo. Perché il rischio è che la vecchiaia ti porti a commettere degli errori che in un attimo cancellano tutto quello che hai fatto di buono in una vita. Grazie a tutti.