Il Signor Barbacarlo

Lo scorso novembre, in occasione del Mercato dei Vini della FIVI organizzato a Piacenza, Walter Massa mi ha presentato un certo Valerio Bergamini, enocurioso di Pavia nonché autore del libro: Lino Maga anzi Maga Lino, il Signor Barbacarlo (ISBN 9788894137514, 232 pagine, 12 euro). Essendo io reduce dalla stesura di un libro sulla Barbera durata circa tre anni, e ben sapendo quanto sia arduo far rievocare ai vignaioli il proprio passato, non ho potuto esimermi dal chiedere a Valerio quanto tempo avesse impiegato a scrivere quella storia. Con mia grande sorpresa, c’erano voluti solo tre mesi: infatti si era limitato a intervistare Maga per tutta l’estate, trascrivere quanto registrato, sistemare un po’ la sintassi e correre a far stampare il volume. Dunque un libro spontaneo, pensai, privo di rifiniture e di rielaborazioni da parte dell’autore. Frettoloso? Involuto? Un po’ sciatto? Niente di tutto questo.

A differenza di quanto accade in due volumi di recente lettura, Manteniamoci giovani: vita e vino di Emidio Pepe (Ed. Porthos, 2014) e in Gravner. Coltivare il vino (Ed. Cucchiaio d’Argento, 2015) – dove Pepe diventa personaggio da romanzo, mentre l’uomo Gravner, grazie a un controllo assoluto sul ritmo e sul lessico scelto, sublima in pensiero poetico – qui il controllo di Maga sull’andamento del racconto, sul timbro e sulla scelta delle singole parole è pressoché totale. Maga ci apre la pagina come fosse la porta di casa e ci fa accomodare nel suo antro buio e fumoso, a quel tavolo enorme su cui fanno bella mostra di sé le varie annate del suo Barbacarlo, ci versa da bere mentre una nebbia fitta e costante ci avvolge tra le spire degli anelli di fumo dell’ultima sigaretta accesa. Il racconto inizia con il suo primo vagito in tempo di vendemmia, come si conviene a un vignaiolo. Impossibile non essere presi all’amo. Nonostante il tono dimesso, la sua voce è guardinga, il suo pensiero lucidissimo, la sua parola incredibilmente potente. Nulla è detto a caso, perché nulla nella sua vita è stato affidato al caso.

Il racconto, che si snoda a poco a poco tra l’infanzia, l’età adulta e la vecchiaia, è intervallato da apparenti divagazioni sul proprio culto privato (la terra va servita, e la vigna chiama a sé ogni giorno dell’anno), sulla sua ineludibile eredità (la valle Maga, proprietà della sua famiglia dal Settecento, e quella vigna che porta il nome dello zio Carlo), sulla registrazione puntuale e precisa di ogni singola annata di Barbacarlo (scritta indelebilmente col vino, dal 1958 al 2014, sulle pagine liquide delle bottiglie-diario), ma soprattutto sul grande amore della sua vita, quel suo vino, solo suo (di cui canta minuziosamente, e senza omissioni, la lunga ricetta, snocciolando informazioni su ettari, composizione dei terreni, pratiche in vigna, vendemmia e vinificazione, travasi e affinamento, botti, tappi e conservazione delle bottiglie), per concludere con il suo pensiero di uomo, e di vignaiolo, sulle miserie della modernità. Maga ci mette in guardia prima di iniziare a cantare la sua misuratissima versione de L’Avvelenata:

“Io sono un uomo libero e parlo da uomo libero”.

E solo allora punta il dito contro l’abbandono delle colline, contro le gravissime responsabilità della politica, della burocrazia e delle Cantine Sociali, contro l’inutilità dell’Expo, contro la spietatezza dell’industria, contro la finta tutela del consumatore e contro la misera fine dei contadini, “razza” che Maga definisce “estinta”, sanzionati perché incapaci di rassegnarsi al loro triste destino.

L’uomo che ci siede di fronte è un uomo mite, che odia le armi, eppure combattivo, caparbio, uno che non molla mai. È coraggioso e, al tempo stesso, fortunato. Umile eppure temerario, tremendamente carismatico, e tremendamente solo. È un personaggio che potremmo definire shakespeariano, un eroe tragico la cui vicenda ruota attorno a un regno usurpato e alla sua strenua difesa. Quella che sentiamo dipanarsi man mano che il racconto procede è una confessione diretta e sincera, con qualche pudore, ma priva di reticenze, lenta, misurata e fiera, a tratti dolente, a tratti sprezzante del pericolo, alla quale si intreccia uno dei più onesti testamenti morali che mi sia mai capitato di leggere. Si mette a nudo, forse omettendo per discrezione qualche dettaglio sulla vita familiare, come è giusto che sia, ma senza tacere nulla su di sé, che sia il prezzo altissimo pagato per restare fedele alla sua missione, che si tratti della sua personale ricetta per il vino, o delle sue convinzioni più profonde.

Lino Maga ci svela tutto, nei minimi dettagli, e lo fa di proposito. Vuole che qualcuno rubi il suo segreto, che raccolga il dono avvelenato dalla modernità e segua le orme che lui ha lasciato. Quel che conta è la terra. Non tace che accanto a una vita felice trascorsa in vigna e in cantina ci sia stata una vita solitaria trascorsa in tribunale a rincorrere sentenze; non tace che accanto a una vita di successo, allietata da amici fraterni come Brera e Veronelli, riconosciuta da giornalisti famosi e da testimonial illustri della politica (uno su tutti, Sandro Pertini), ma soprattutto sostenuta dalla folla di estimatori, ci sia stata una vita segnata da tragedie famigliari, dalla dolorosa fine di un matrimonio e dalla minaccia di morte per mano di rapinatori armati. Ma ammonisce i giovani che vorranno seguirlo, e noi tutti:

“…su queste terre eravamo tutti singoli, ma facevamo gruppo. Adesso tutti vogliono fare gruppo, ma sono singoli!”

E poi Lino Maga si accommiata da noi, suoi ospiti, e sembra di stare in teatro. Silenzio in sala. Il fascio di luce converge su di lui. Primo piano. Il poeta contadino inizia il suo monologo:

Ora guardo le viti vecchie rimaste, che con i miei avi ho sempre curato, e gioisco perché abbiamo vissuto assieme. Quando sono nel vigneto mi sembra di avere tutto quello che mi serve. Ho messo a nudo il mio cuore per la prima volta nella mia vita… adesso la mia mente è stanca e non ha più voglia di rievocare.

Lino Maga. Lino il Mago. Non posso non pensare alle molte analogie con Prospero il re mago, vittima dell’usurpazione, a lungo in esilio, ma sovrano della sua isola incantata, anch’egli vittorioso nella sua battaglia, che alla fine de La Tempesta così si accomiata dal pubblico: Ora che ogni mio incantesimo è infranto, / e le fragili forze che mi restano son solo mie...

Senza dubbio Lino il Mago è un consumato attore, ma questo non fa di lui una persona meno vera. Certo, ha già pronunciato queste parole innumerevoli volte. Le conosce a memoria, ha scelto le più efficaci e forgiato le più eloquenti, per costruire un discorso che è emanazione del “linomagapensiero”, come Walter Massa lo definisce con felice immagine nella postfazione. Le ha collaudate nel corso del tempo e le ha raccontate non solo a tutti coloro che, come me, sono andati a trovarlo, ma anche ai vari giornalisti che nel corso degli anni lo hanno intervistato. Nelle note al testo Valerio rivela di aver integrato il racconto con l'intervista apparsa nel 2002 sul numero 15 di Porthos. Ma l’effetto creato qui è molto diverso: mentre sulla rivista il lettore incontrava Maga attraverso lo sguardo di un intermediario, qui l’incontro si fa intimo, inedito, in qualche modo straordinario. A renderlo tale è proprio l’assenza di un commento, di una voce narrante fuori campo. In quella stanza buia e fumosa e ci siamo solo noi e lui. Il racconto è finito. Il nostro bicchiere è vuoto. Sul fondo un volto misterioso di donna. Chi sarà mai? Forse un riverbero della madre terra. Forse il ricordo della madre Giulia. O forse solo la vera natura del Barbacarlo. A noi la scoperta.