Olive, mare e vento del nord - la verticale di Trebbiano Valentini (1983-2008)
/Loreto Aprutino, 12 marzo 2016. Diciotto persone giunte da tutta Italia presso il Castello Chiola, per partecipare a una verticale da capogiro di tredici annate più una di Trebbiano d’Abruzzo Valentini. Ovvero: tutto quello che avreste sempre desiderato assaggiare, ma non avete mai osato chiedere. Una di quelle verticali per cui si è disposti a fare una follia, come percorrere più di mille chilometri in due giorni, perché sai che sarà difficile che ricapiti. Per me l'occasione per avere - per la prima volta - una visione di insieme dello spettro espressivo di questo vitigno mimetico e alquanto misterioso nelle sue possibili declinazioni quando si incontra con la mano felice dei Valentini.
E non a caso all'evento gli organizzatori Graziana Troisi e Giovanni Carullo (La Fillossera) hanno dato il titolo evocativo "Vitigno Visione Paesaggio Identità", che assieme rappresentano l'essenza stessa del terroir disciolto nel Trebbiano Valentini: un paesaggio che riassume climaticamente tutte le contraddizioni di una terra a metà tra la Majella e il mare, l'identità di un popolo che si rispecchia nella spremitura di un'oliva autoctona, e la visione dei Presocratici in armonia con la natura quando si decide di lasciar fare alla natura il suo corso.
La conduzione colta e informale di Gae Saccoccio (www.naturadellecose.com) ha permesso a tutti questi elementi di emergere liberamente attraverso lo scambio di impressioni, emozioni, ricordi e analogie tra i presenti, evitando le maglie strette di eccessivi tecnicismi e di granitiche certezze. Comunque lo si giudichi, questo è un vino che sfugge a una facile lettura perché necessita di altri paradigmi, e che sfida apertamente chi si accosta mettendo a dura prova le sue convinzioni (e la sua pazienza) con la propria enigmaticità primordiale.
Dopo un aperitivo con un Trebbiano sfuso venduto in damigiana a pochi affezionati clienti – annata 2014, forte, definito, molto riconoscibile nei profumi di oliva appena franta – i vini sono stati serviti a gruppi di quattro, dal più vecchio al più giovane, su file di bicchieri che ho conservato religiosamente fino alla fine, principalmente suddivisi per decadi: gli anni Ottanta, gli anni Novanta e gli anni Duemila.
Prima serie (1983-93)
1983: smalto e crema pasticcera, erbe e menta. Un Marsala secco d’altri tempi, sontuoso come un ornamento barocco ed etereo come una sfogliatella appena sfornata. È il Vino del Sogno, che ai numerosi assaggi successivi non perde la sua coerenza interna nemmeno per un istante.
1988: un misto di idrocarburi e note candite. Un vino che parla una lingua del nord, e racconta di altre latitudini, e di altre altitudini, ben più fredde e verticali.
1990: erbe aromatiche e nocciola tostata. Cambio di rotta: caldo, morbido, a mio avviso il più allineato ai canoni di oggi: per noi bevitori del Terzo Millennio il più comprensibile – e il più accettabile. Ciò che verrebbe universalmente riconosciuto come un “grande vino”.
1993: avvolgente e, al tempo stesso, salato e minerale. È il vino che presenta il maggiore equilibrio in bocca, sebbene sia molto più esile del precedente. Forse per questo motivo risulta elegantissimo al palato.
Primo quartetto: i “vini del nord”. Sono vini che dialogano con i Riesling tedeschi e, simultaneamente, con i bianchi dell’Etna, quanto a profumi, acidità e mineralità, forse per la vicinanza di montagne imponenti come la Majella e il Gran Sasso, o forse per i venti freddi che soffiano da quelle parti. L’unica annata apparentemente non allineata è proprio quell’83, un Trebbiano di trentatrè anni, il cui mistero viene subito svelato, sciupando un po’ della magia creata dall’aspettativa. A ogni modo, la trama tessuta nel disegno del decennio si rivela man mano che vengono servite le altre annate. La nota barocca dell’83, se da un lato conversa meravigliosamente con la nota calda e avvolgente del ’90, dall’altro richiama la trina trasparente del ’93 e le note evolute dell’88. Se c’è un filo comune che li attraversa tutti (e c’è di sicuro) è che sono vini irriconoscibili rispetto al frutto evocato dalle annate più recenti.
Seconda serie (1995-1999)
1995: vino potente, ricorda un po’ il 1990, ma presenta molto meno rigore. È un vino un po’ spettinato, decisamente salmastro.
1997: molto più composto del precedente, ma meno possente nella struttura, deliziosamente salmastro e minerale. Vino notevole, di quelli che non smetteresti mai di bere.
1998: sentori tra il floreale e l’agrumato, mazzo di erbe aromatiche dal quale emerge con prepotenza il bergamotto. In bocca delicato e succoso nelle sue note salmastre.
1999: il più estremo, quello che maggiormente sfida le convenzioni e tutte le nostre certezze. Salmastro, chiama la vongola, la cerca. È un’ostrica racchiusa in una bottiglia. È un messaggio che può non piacere, e che sfida con una certa temerarietà ogni buona maniera - e il lavandino.
Secondo quartetto: i “vini del mare”, salmastri e salati. Invecchiando, hanno tutti in parte perso la loro natura di oliva franta e in salamoia che si notava appena dieci anni fa, ma sono ancora in parte riconoscibili. Tra loro spicca il 1999, uno di quei vini che scavano dentro e inducono al dubbio, che mettono sete di conoscenza, che aprono porte e orizzonti. Non è il più buono, ma è il più primordiale. Quello che mi spinge personalmente a proseguire la ricerca e che, in qualche modo, sfugge alla mia comprensione.
Terza serie (2000-2008)
2000: annata di transizione tra l'ostrica e l'oliva, presenta profumi mediamente complessi e un'intensità non stravolgente; nonostante l'annata piovosa, è un vino in equilibrio tra il vegetale e il marino, dalla struttura elegante e convincente.
2001: nocciola tostata, crema e carciofo, profumi freschi e vegetali ben integrati a sentori più dolci e avvolgenti.
2005: tra la macchia mediterranea e il floreale, grande compostezza ed equilibrio.
2007: nota salmastra molto evidente e caffè tostato un po' spiazzante - a mio avviso, non gradevolissimo.
2008: una spremuta di olive dolci e salate con una leggera effervescenza percepita sulla punta della lingua, ancora un bambino...
Terzo quartetto più uno: la serie dei “vini in salamoia”, i vini di Valentini che conosciamo. Spettro di profumi contenuto, ma coerente e molto riconoscibile.
Al termine della serata ho avuto modo di riassaggiare le tredici annate con un giro di pecorini locali davvero notevoli: pecorino fresco di Guardiagrele, canestrato di Castel del Monte, del proposto di Penne, affinato in grotta e blu di pecora (Az. il Tratturo di Cepagatti). E come sempre accade, a seconda del tipo di cibo in abbinamento, i vini parlano una lingua diversa e raccontano un'altra storia: se con il polpo e la vongola il Trebbiano conversa con un gioco di echi, assieme a pecorini di varia stagionatura e intensità le annate si accendono, fioriscono, esplodono, mostrando lati di sè altrimenti nascosti.
La sensazione finale? Qualcosa di potente che assomiglia più a un brivido che a un'intuizione: quella di un vitigno che, pur avendo uno spettro di profumi piuttosto ridotto, è in grado di scavare in profondità e di creare un vino tridimensionale, magari poco appariscente, magari poco concettuale, ma capace di tuffarsi negli abissi, di nuotare in zone inesplorate di noi e di farle riemergere. A differenza di altri grandi vini bianchi (si pensi alle potenzialità evolutive di Verdicchio, Timorasso o Ribolla, solo per fare qualche esempio) il Trebbiano - questo Trebbiano - si presenta sicuramente meno ampio e sontuoso (ad eccezione dell'83, la sua versione più longeva), ma non per questo risulta meno complesso.
Non l'ampiezza. Non l'opulenza. La sua cifra è il mistero. Struttura materica e primordiale, ha una sua voce e un suo canto, inconfondibile. Non è come leggere Shakespeare o Joyce. Piuttosto Omero. E come Omero ci parla di un mondo scomparso che ci siamo lasciati alle spalle, o che - forse - giace solo sepolto dentro di noi.