Basterebbe il tappo per essere felici - Coste di Riavolo 2012 San Fereolo
/L'ultima bottiglia rimasta. Sono mesi che attendo il momento giusto per aprirla - a maggior ragione visto che è l'ultima - e il momento è finalmente arrivato. Alberto stappa la bottiglia dall'altra parte del tavolo e accosta il sughero al naso, ma non c'è bisogno che dica niente: un meraviglioso effluvio, così intenso, profumato e inebriante, mi ha raggiunto comunque nonostante i 50 centimetri di distanza. Basterebbe annusare il tappo per essere felici, senza arrivare a berlo, penso mentre osservo Alberto sgranare gli occhi, piacevolmente sorpreso da tanta dolcezza e levità. "Senti che meraviglia..." Un attimo dopo me lo porge perché lo annusi a mia volta. Mentre mi beo di quel profumo incredibile, ripenso allo sguardo avvilito di Nicoletta Bocca mentre parla di tappi traditori e di bottiglie interrotte da ossidazioni devastanti nel corso del loro fulgido cammino verso la longevità. In effetti io, un tappo così, non l'ho mai sentito. Questo non è traditore. Questa non è una bottiglia interrotta. Non è un sogno spezzato. Tutt'altro.
Un vino austeramente barocco, che riassume in sé una felice contraddizione. Barocco al naso, austero in bocca. Al naso, infatti, sfodera tutta la luce dorata del Gewürztraminer, mentre in bocca restituisce il rigore del Riesling in chiave mediterranea. È un vino che nei profumi si concede una sensuale opulenza, libera da inibizioni e censure, che però in bocca viene subito redarguita, contenuta dalle rigide stecche di balena di un bel corsetto, e ricondotta all'interno di un assoluto controllo formale. È lo stesso sensuale rigore che ritrovo - mutatis mutandis - nel San Fereolo, il suo Dolcetto Riserva, qualunque sia l'annata. Non credo che sia il territorio. No, credo proprio che sia un imprinting che deriva inequivocabilmente dalla mano di Nicoletta, una sorta di emanazione della sua anima.
Massima libertà e massimo controllo nello stesso bicchiere. Pesca bianca con un tocco di vernice, e una nota agrumata scura che ricorda il chinotto candito. È un viaggio sensoriale che mi riporta per un attimo sulla costa di Marsala, a certi Catarratto che respirano l'odore del mare e, un attimo dopo, nella savana africana, a certe erbe aromatiche che, quando le calpesti nel bush, ti avvolgono fresche e profumatissime. Poi subentra una nota dolce, prepotente, uno zabaione alcolico (forse irrorato di Marsala?) e subito dopo note agrumate chiare e scure - arancia candita da un lato, arancia sanguinella fresca, dall'altro - perfettamente bilanciate.
Questo è un vino che va ben oltre Dogliani. Sa di Sicilia, di Mediterraneo, di savana africana. Finché.
Finché il sogno africano ritorna tra le maglie della razionalità: in bocca riesce a essere dolce in entrata, poi secchissimo e nel contempo morbido, di una freschezza commovente, aromatico, e persino tannico. Ma come diavolo riesce a tenere in piedi con naturalezza un'impalcatura tanto sofisticata? Eppure, inspiegabilmente, riesce nella missione impossibile di ricomporre il caos e di riconciliare gli opposti, mettendoci dentro tutto, con misura, senza strafare.
Via via al naso emergono note burrose, fiore di sambuco, vernice, prugne spadellate nel brandy e lingue di gatto, mentre in bocca, alla fine, sorprende con un bastoncino di liquirizia, rinfrescante e deliziosamente amaro.
Un vino di soli cinque anni, forte come un toro, con una lunga parabola davanti a sé. Peccato fosse l'ultima bottiglia...